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LIKE "OTHER IDENTITY"

Hanno scritto sul progetto:

Giampaolo Abbondio | Edoardo Acotto | Alessandra Arnò | Claudia Attimonelli | Lidia Bachis | Emanuele Beluffi | Fabrizio Boggiano | Chiara Boni | Marco Bruschi | Bettina Bush | Anita Calà | Lorenzo Canova | Mario Casanova | Giulia Cassini | Annalisa Cattani | Piera Cavalieri | Claudio Cerritelli | Maurizio Cesarini | Rossana Ciocca | Anna d'Ambrosio | Valerio Deho | Amalia Di Lanno | Isabella Falbo | Anna Fiordiponti | Matteo Fochessati | Patrizia Gaboardi | Alessandra Gagliano Candela | Carlo Gallerati | Francesca Galliani | Roberto Garbarino | Nunzia Garoffolo | Carlo Garzia | Ferruccio Giromini | Romina Guidelli | Chiara Guidi | Flavia Lanza | Amelì Lasaponara | Marla Lombardo | Karolina Mitra Lusikova | Luciana Manco | Angelo Marino | Gianluca Marziani | Chiara Messori | Roberto Milani | Lorenzo Mortara | Ivana Mulatero | Maya Pacifico | Massimo Palazzi | Luca Panaro | Sabrina Paravicini | Claudio Parentela | Claudio Pozzani | Domenico Quaranta | Sandro Ricaldone | Mariella Rossi-Stefano Cagol | Claudia Sensi | Stefania Seoni | Ivano Sossella | Benedetta Spagnuolo | Federica Titone | Caterina Tomeo | Tiziana Tommei | Roberta Vanali | Venette Waste | Bruno Wolf.

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GIAMPAOLO ABBONDIO

Sei quello che posti, non importa che tu lo faccia di più o di meno, o che addirittura non ci sia, l'immagine che proiettiamo sui social media non è che l'estensione di come ci comportiamo entrando in una stanza. Ovviamente il campione da considerare deve essere sufficientemente sostanzioso, non ci si può fermare al selfie fatto durante una festa o davanti a un quadro, come peraltro non si può giudicare una persona alla prima impressione. Plus ça change, plus rien change...

E in ogni caso, vizi privati e pubbliche virtù.

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EDOARDO ACOTTO

Soggetti e volti on-line

Sempre più persone sono oggi interconnesse grazie alla Rete, e un effetto non minore di questa interconnessione è un possibile mutamento del discorso filosofico sul soggetto. La progressiva diffusione di internet e il suo impatto sugli individui e la società hanno suggerito a sociologi e filosofi di analizzare attentamente il fenomeno,  reinterpretando e adattando alla nuova realtà categorie elaborate per un mondo in cui le interazioni erano reali e non virtuali, nonostante l'eccezione clamorosa della telecomunicazione epistolare.

(Ma anche ciò che chiamiamo virtuale ha una sua realtà, non essendo un puro nulla). Si è diffusa presso i teorici dei nuovi media l'idea che la comunicazione via internet coinvolga a tal punto gli individui da mutarne la natura stessa di soggetti: si potrebbero ora chiamare soggetti on-line, intendendo con questa etichetta gli individui che in Rete esplicano una parte importante della loro esistenza cognitiva, affettiva, sociale, politica, ecc.

Sherry Turkle è una delle prime teoriche di un cyberspazio emancipativo per il soggetto. Secondo Turkle la Rete offre “all’individuo una sorta di controllo totale sulla messa in scena della propria identità”. Le teorie postmoderne come quello di Turkle, tendono ovviamente a negare – forse con troppo ottimismo postmodernista - che l’identità sia (ancora) qualcosa di rigido e immutabile (C. Formenti, Se questa è democrazia, Manni, 2009).

Un modello sociologico spesso utilizzato per pensare le interazioni sui social network è quello del sociologo canadese Erving Goffman che ben prima dell'avvento della Rete ha proposto un “modello drammaturgico” delle interazioni sociali reali: in questo modello il confine tra pubblico e privato è figurato come palcoscenico e retroscena. L’individuo-attore “mette in scena il possesso di caratteristiche sociali che dovrebbero garantirgli di essere valutato e trattato in un determinato modo dagli altri” (Formenti, ivi, p.78). Spesso però gli altri attori oppongono resistenza alle pretese dell’attore: si è sempre pronti a sfruttare le incrinature della sua “armatura simbolica” per abbassarne l'autorità, sbeffeggiarlo, rovesciarlo nella polvere.

Per affermare il suo ruolo sociale, sempre secondo Goffman, l’individuo-attore ha bisogno della cooperazione di un’equipe che confermi le pretese sociali dell’attore. Per esempio, per non perdere credibilità, un importante uomo politico che faccia pubblicamente il buffone necessita di un'equipe che lo giustifichi, che sminuisca il ridicolo di cui altrimenti si coprirebbe. Il re non è nudo finché nessuno lo dice in pubblico. Nel retroscena, l’equipe può ammettere che il politico si è comportato come un buffone, purché i segreti del retroscena non siano rappresentati sulla ribalta. Il gioco sociale off-line permette anche di indossare diverse maschere, purché di fronte a persone diverse. Teorici come Sherry Turkle ritengono invece che le relazioni sociali mediate dal computer e dalla Rete offrano l’assoluta libertà di inventarsi molteplici identità: il palcoscenico goffmaniano diventa così più uno specchio solipsista che un’interfaccia delle relazioni io-altri. Questa situazione avrebbe addirittura (secondo Turkle) un valore terapeutico, perché i social network sarebbero luoghi nei quali si può “mimare la vita” al riparo quasi completo dalla sua violenza (un'opinione chiaramente precedente l'epoca del cyber-bullismo).

I social network rendono obsoleto il ruolo delle equipe goffmaniane, alterando il modo di attribuire fiducia agli attori. Nella modernità on-line, infatti, assistiamo a una diminuzione della fiducia nei “sistemi esperti”, negli attori istituzionalmente autorevoli: a prescindere da meriti effettivi, e per mero carisma conquistato sul campo, sono gli utenti che costruiscono collettivamente fiducia, come si vede nel fenomeno degli scrittori self-published che possono diventare celebri anche al di fuori del mercato editoriale ufficiale.

Un corollario negativo: in questa comunità virtuale di soggetti on-line, com'è noto, non si è quasi mai soli. Se manca la connessione può scattare un moderno succedaneo dell’angoscia kierkegaardiana-heideggeriana (angoscia per il nulla). Quella che Blanchot chiamava la “solitudine essenziale”, riferendola allo scrittore, è vissuta come condizione negativa dal soggetto on-line, privato della possibilità di connettersi con il suo mondo virtuale ma reale. Maurizio Ferraris parla di una “chiamata” che non lascia in pace nessun soggetto contemporaneo, immerso in un ambiente iper-connesso. Ed è una minacciosa chiamata alle ARMI, ossia Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell'Intenzionalità (M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, 2015).

Il social network che ha prodotto più soggetti on-line è senza dubbio Facebook. Qui il primo contatto con l’altro è un'immagine, un “avatar”. Stando al nome stesso del social network, quest'immagine primaria è tipicamente un’icona del volto, anche se questa tipicità viene regolarmente violata: molti utenti non pubblicano un’immagine del loro volto bensì dell’intero corpo, parti del corpo diverse dal volto, parti del volto che ne adombrano ma al contempo impediscono una visione globale. Altri  pubblicano un’icona che li rappresenta simbolicamente: una bandiera, uno slogan,  la fotografia di un paesaggio o di un oggetto. E ci sono anche i soggetti on-line che si presentano con un volto fittizio: un quadro, la maschera di un supereroe, l'immagine di un attore famoso, di una rock-star recentemente defunta, oppure il volto reale della persona reso irriconoscibile dai capelli, dagli occhiali scuri, da sciarpe e cappelli. Sono immagini che velano il volto, quasi promettendo uno svelamento successivo.

Di fatto non ci sono limiti; di diritto però, tutte le immagini alternative “stanno per” il volto autentico, lo significano, lo sostituiscono, fungono da icone (con un rinvio naturale) o simboli (con un rinvio allegorico) del volto del soggetto. Questo è il lato visivo dell'implementazione di identità alternative teorizzato da Turckle.

Ma c'è dell'Altro. Il volto in filosofia è stato infatti considerato come ciò che più ci convoca a un'apertura verso l'Altro (Lévinas), inteso innanzitutto come altro essere umano aperto su un'infinita trascendenza divina e antropomorfa. Si potrebbe dire che il volto fotografato e formattato per non è certo il vero volto; ma è forse preferibile osservare come l'esperienza dei social network sembri piuttosto corroborare l'idea di Deleuze e Guattari secondo cui il volto, anziché semplice icona dell'identità umana, è un regime del significato. Visagéité, ossia un dispositivo astratto muro bianco/buco nero che introduce nell'essere del senso inorganico, inumano. Scorrendo le pagine di Facebook, il soggetto on-line naviga in effetti attraverso paesaggi di senso, che trovano nelle fotografie dei volti decostruiti dei temporanei centri di attrazione gravitazionale. Face-world.

Memore del fatto che indossare maschere costituisce parte fondamentale di certe terapie di ispirazione psicoanalitica, io (che entro in scena soltanto ora) ricorro sistematicamente agli avatar e alla pratica della visagéité come a un piccolo teatro quotidiano senza grandi conseguenze. Eppure questo teatro mi ha cambiato la vita.

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ALESSANDRA ARNO'

«La foto‐ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano.

Davanti all'obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per dar mostra della sua arte». (Barthes)

Black magic mirror

Chi non ne possiede uno?

Chi non ha mai ceduto alla vanità di interrogarlo su quanti like si riceveranno? Che utilità ha uno specchio che non “riflette” nulla.

Nella storia l'auto rappresentazione è passata dagli stilemi pittorici a quelli fotografici, sempre legata alla concezione di specchio, strumento utile alla riflessione della propria immagine e alla riflessione del sé. Il concetto di auto rappresentazione è lo sguardo interiore e psicologico, l'occhio benevolo che mostra la parte migliore del nostro essere e ne descrive i valori, l'unico strumento atto ad immortalare i momenti salienti della vita e della morte come auto affermazione dell' esistenza.

In realtà forse non è cambiato molto dalla passata concezione di auto rappresentazione se non l'estetica e la mancanza dei dettami artistici tradizionali

In uno specchio nero dove la riflessione è negata la questione dell'auto rappresentazione si basa solo sul dato contingente e sull'istante.

“Io esisto perché ho vissuto questo momento. Guardami, sono proprio io!”

Non è più necessario trasmettere altro, ma è fondamentale che qualcuno di conosciuto o sconosciuto riceva il nostro messaggio.

La questione sostanziale dell'auto rappresentarsi negli anni 2000 non si esaurisce solo nel cambiamento delle modalità pratiche e concettuali dell'autoscatto digitale, apre in realtà altre scenari legati alla sovraesposizione mediale. Se uno schermo/specchio nero non ci da la possibilità di “auto rifletterci” questo strumento ha altresì la facoltà di affermare la nostra esistenza in un flusso continuo e superficiale di immagini nella rete sociale.

La superficie apparentemente scura dei nostri devices tascabili in realtà è uno schermo sempre acceso sulla proiezione della nostra esistenza. E' allo stesso tempo un registratore e un player attento a diffondere i nostri attimi e a mostrarci le vite altrui.

La democratizzazione tecnologica ha aperto un nuovo mondo in cui auto affermarsi o proiettare l' immagine “migliore” della nostra esistenza. Una dimensione in cui viene data la possibilità di riscattare l'immagine reale di noi stessi per diventare altro.

Anche se la velocità di diffusione non permette la messa in scena ottimale del nostro alter ego digitale, questo non è da considerarsi un fattore disturbante, perché l'assimilazione dell'immagine postata è stata già soppiantata dalla successiva, in un continuo flusso di suggestioni, a volte superficiali come la stessa condizione di “non riflessione”.

L'auto rappresentazione e l'auto affermazione della propria esistenza nei social networks può essere considerata come una infinita performance quotidiana, dove l'azione stessa di auto rappresentarsi è il vero significante a dispetto dell'aspetto formale, dove l'impossibilità di riflettersi crea il simulacro stesso della nostra identità.

Come nella favola di Biancaneve passiamo il tempo ad interrogare lo specchio nero, in una estenuante performance mediale che afferma solo la nostra esistenza.

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CLAUDIA ATTIMONELLI

Photographia sé/xualis: un secolo di selfie

Se Baudelaire curava l’isolamento esistenziale fabbricando ponti magici fra l’antichità e il suo presente, dialogando preferibilmente con i morti, personalità del passato che disseppelliva, sradicandoli dalle tenebre e convocandoli accanto a sé, nella pratica della citazione. Lo specchio di Dorian Gray, gli autoritratti fotografici di Edvard Munch, la scena dandy dei glam, dei punk, degli emo e dei poseur di oggi, sono cure all’isolamento poiché coltivano l’estetica della fuga: si scompare nei luoghi mondani per consumarsi ostentando il sé nell’hic et nunc dei selfie e dei profili senza proiezioni future.

Ma non si tratta solo della scomparsa dai luoghi societali della cultura, non è per frivolo narcisismo fine a se stesso, quanto piuttosto per una vitale fuga dall’identità ufficiale, dal genere sessuale biologicamente precostituito, dalle forme date, che solo la fotografia riesce a scardinare con il suo principio ontologico dello sviluppo, del ritocco, e, oggi sempre più del filtro.

Il filtro fotografico, l’autoritratto digitale, in definitiva è il suicidio del sé monolitico per dare vita all’apparire della nuova carne. L’unità del sé sarà viene ricercata e ritrovata nell’esperienza performativa e artistica della vita in rete.

Una “sacra prostituzione” direbbe Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo (2004). Il corpo e le sue maschere, i travestimenti, le parti maledette e gli effimeri piani d’intensità dialogano all’interno dello spettacolo quotidiano e fuori di esso creano strati, emozioni, corpi in sussulto, sono gli strumenti che costruiscono una mistica del paganesimo contemporanea, il cui linguaggio è la fotografia. Essa non genera identità, essa produce alterità, alterazioni e personificazioni.

Tutto sembrava pronto alla fine del secolo scorso, sotto il segno di un’autentica spiritualità della carne, per vegliare sino all’alba del nuovo Millennio, nel quale questi sprezzanti e teneri alieni, così sensibili all’estetica del loro tempo, avrebbero lasciato per sempre la terra verso un’altra vita. (all’alieno, Starman David Bowie, lux perpetua luceat ei, requiescat in pace).

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LIDIA BACHIS

Un debuttante nell’assoluto

2013 Biennale di Venezia, per la mia partecipazione presento un lavoro composto da sei oli su tela (cm60x60 cadauno), dal titolo “Un debuttante nell’assoluto”.

La debuttante sono io in una sorta di invito al ballo, le debuttanti sono le ragazze da me ritratte in un fermo immagine che le immortala  in espressioni buffe, ridicole, forzate, cercate. Un selfie che altro non è che il ritratto contemporaneo di un eterno se stesso riprodotto, moltiplicato, imposto. Postato decine e decine di volte. Un selfie al giorno sembra essere il motto dell’uomo moderno, che certifica in questa sua cristallizzazione costruita di un se attore e a sua volta spettatore di simili come lui, la certezza di un esistenza in vita. Non ci si accontenta di essere qui e ora, di fare la propria vita, bisogna narrarla. Gli artisti da sempre hanno usato la propria immagine per un progetto di arte, di denuncia, di presa d’atto, dal più classico autoritratto, Tiziano, Rembrant, o Van Gogh fino  ai nostri giorni, con  Cindy Sherman che assume mille forme e vive mille vite, con Orlan che taglia e cuce il suo volto come se non le appartenesse, ma fosse uno dei tanti medium di cui può servirsi un artista.

Un artista ha sempre giocato con la sua immagine, di più, ne ha preso atto, facendone strumento di denuncia o di lotta, di azione o reazione, di uso o abuso, un corpo unico  dove il pensiero e la ricerca si fondono con il contenitore, così l’artista non scinde l’immagine pubblica da quella privata  - in alcuni casi –  facendo di se stesso un’opera d’arte totale.

Altro dicasi per la gente comune, il vicino, ora amico, in un mare di amici, tutti sempre connessi.

E allora si passa da un like all’altro, si condividono post, si invita a mettere un “mi piace”, si viene uniti a gruppi, si fanno petizioni, si lanciano anatemi, si fanno proclami, si prende posizione, tutto rigorosamente, virtuale.

Tanti satelliti chiusi nel proprio universo di certezze, che comunicano con altri satelliti, galassie in un buio eterno.

Altre identità - OTHER IDENTITY - è il titolo del progetto- mostra di Francesco Arena, altre identità è il tema su cui invita a confrontarsi/ci, tutti. Rinnovo il mio stupore e forse il mio non essere perfettamente allineata verso un esterno che si evolve e non aspetta nessuno, come in bilico fra curiosità e stupidità.

Altre identità appartiene a questa nuova generazione una volta liquida, che vive, respira, cresce, attraverso uno schermo, mi ricordano i viaggi dell’arcadia (Capitan Harlock) dietro ad un vetro l’infinito,con l’equipaggio (loro) sempre dentro a guardare fuori, verso una meta sconosciuta o forse semplicemente senza meta.

Navicelle perse nel proprio spazio, dove tutto si risolve all’interno di una stanza, dentro una casa, chiusi in uno stabile, avvolti da altro cemento e così all’infinito. Altre identità è una possibilità a patto che di identità se ne possieda almeno una, una base, un piedistallo, una colonna, poi si parte.

Altre identità senza nessuna certezza di sé, diventa un infinita possibilità di essere nulla.

Vuoto.

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EMANUELE BELUFFI

Scorrendo la parole con cui Francesco Arena mi ha spiegato il Suo progetto, Other Identity, una mostra che ha per oggetto il sé e la sua mutevolezza a fronte dell'implementazione dei modi di rappresentarlo, non ho potuto fare a meno di riandare con la memoria ai miei studi universitari. Era la fine degli anni Novanta, per la precisione il 1999, quando incappai in quella branca della Filosofia che ora conoscono tutti, ma che all'epoca era ancora una verginella: la Filosofia della Mente, una "corrente", diciamo, di quell'area filosofica di tradizione analitica del mondo culturale anglo/americano che un'Italia ammorbata dai vari Gianni Vattimo e dai suoi cuginetti d'Oltralpe (Jacques Derrida, Gilles Deleuze e compagnia brutta) non sapeva che cosa fosse. In effetti si trattava di un approccio inedito ai problemi filosofici, caratterizzato da un argomentare che non concedesse nulla alle sirene della metafisica e ai baloccamenti col linguaggio.

Insomma, roba tosta, da approntare armati di Logica e cazzo duro. Comunque, per non stare qui a ciurlar col manico, vi basti sapere che uno dei suddetti problemi filosofici in cui m'imbattei, all'epoca imberbe studentello, era rappresentato dai concetti di sé e di identità personale: in parole povere, che cosa significa essere una persona? E soprattutto: che cosa si prova ad essere un pipistrello?

Come ben sapete (ma veh!), la storia della filosofia è (anche) la storia delle soluzioni al problema mente/corpo (do you remember Cartesio?: "Devo stare attento a non scambiare me per qualcos'altro!") e alle connesse questioni dell'identità personale e, nel corso dei secoli, nonostante tutto questo gran parlare, non si è naturalmente giunti ad alcuna conclusione universalmente accettata (e non potrebbe essere altrimenti).

Di certo è che il mondo là fuori è fatto di due cose, noi (i soggetti d'esperienza) e le cose. Ma di cosa (perdonate il gioco di parole) sian fatti i nostri ricordi, le nostre menti, i nostri desideri e quali siano (se ci sono) i loro rapporti con il nostro corpo, è ancora questione aperta. Di sicuro, tu non hai la più pallida idea di cosa sia il mio mal di denti e confesso che non riesco proprio a trovare le parole adatte per descriverti il mio mal di denti. Ogni medico lo sa, quando chiede al paziente di spiegargli che cosa senta esattamente ("ma senti più un dolore o un'oppressione? Ti brucia o è più una sensazione di pesantezza?").

Ad ohni modo, provate a chiedervi "Ma io chi sono esattamente?". Non ci riuscite, vero? Inutile far leva sui vostri ricordi, o sul vostro corpo (le cosiddette "esperienze propriocettiche"), o sulle vostre percezioni (i cosiddetti "qualia", detti anche "esperienze pure"), o sull'osservazione delle vostre fotografie: comunque la prendiate, l'identità personale vi sfugge ("è fluida", direbbero i conformisti della cultura un tanto al chilo).

E questi tempi folli, che ahimè non son più tempi di streghe, non fanno che aggravare il problema: non bastavano Gina Pane e Franko B (che ammiro smisuratamente), ci voleva la moda dei fantomatici selfie a mettere un segno + al problema dell'identità personale.

Ma io sono un reazionario e allora dico che forse aveva ragione Rimbaud: "Io è un altro".

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FABRIZIO BOGGIANO

Prendendo in prestito il titolo di un’opera giovanile di Paul Ricœur, “Sé come un altro”, ritorniamo ancora una volta a riflettere su una questione che ha sempre riguardato l’uomo e la propria esistenza.

Essere e/o apparire è la dicotomia che ha avvolto l’uomo in ogni epoca e in ogni situazione, imprigionandolo all’interno di infinite sfumature capaci di plasmare il nostro voler essere, spesso a ogni costo e a qualsiasi prezzo.

In questo modo l’identità si è sempre trovata a oscillare fra almeno due polarità: una legata alla volontà interiore dell’essere spesso però invalidato dall’ansia e dall’insicurezza che l’assenza di approvazione altrui genera; l’altra dovuta al fatto di sentirsi ineluttabilmente parte di una collettività sovraordinata e impositiva che conduce molto spesso a un senso di inautenticità diffusa.

Naturalmente l’impetuoso progresso tecnologico ha contribuito ad annullare sia le distanze quanto le attese provocando, in questo modo, una frenesia la quale, eliminando i tempi morti, induce uno stordimento esistenziale che si tramuta spesso in uno stato bulimico affamato di continue e differenti apparenze. Ecco quindi che l’illusione del poter-fare e del poter-essere (ma in realtà sarebbe più corretto affermare del dover-fare e del dover-essere), ha inevitabilmente traghettato l’uomo contemporaneo in una “società della prestazione”, oserei dire a ogni costo, all’interno della quale abbiamo sempre più l’impressione di poter scegliere ma, probabilmente, sempre meno quella di poter sceglier-si.

Gli artisti, come sempre filtri attenti di ogni mutamento, sottolineano con grande vigore l’ennesimo cambiamento in atto e le loro riflessioni potrebbero, e dovrebbero, condurci a una autoanalisi interiore attraverso la quale si possa riflettere se il nuovo percorso intrapreso dalla nostra esistenza rispecchi realmente le nostre identità.

Non c’è dubbio, infatti, che ognuno di noi possegga da sempre altre e differenti identità, ma forse è giunto il momento di soffermarci a considerare se tutte queste siano proprio in sintonia con il nostro autentico essere profondo, a patto che lo si riesca ancora a ritrovare in noi stessi senza doverlo ricercare a tutti i costi negli altri.

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CHIARA BONI

Ci affacciamo alle finestre social per salutare il nostro vicino che ora non ci è più estraneo.

La realtà che mostriamo è quella dei nostri pensieri. Nella verità digitale delle immagini c’è spazio per l’Arte.

L’Arte ridisegna i contorni delle persone assecondando la personalità.

L’iconografia del web è fatta di volti luminosi ma a noi non dispiace.

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MARCO BRUSCHI

La riflessione, quella data da uno specchio, immagine perfetta per alcuni e contraria per altri, produce sicuramente un duplice effetto utilizzando l’udito e la vista.

La comunicazione riflessa diventa interpretabile, filtrata e intangibile, portando i rapporti tra individui ad evocare l’antico mito, quello di Eco e Narcisio.

Tali mancanze regrediscono socializzazione e condivisione, portando gli individui a nascondere i propri pensieri, a soffocare i propri sentimenti e a snaturare i propri rifiuti e accettazioni, consolidando le proprie certezze in base all’opinione dei tanti perché; a ogni risveglio si sceglie la realtà più conveniente, reale o virtuale.

L’immagine di un vecchio mercato a peso, dove bilance, antiquatamente analogiche, pesano linguaggi e sguardi delle persone che lo animano, diventa molto comunicativa a tal proposito: così distanti dalla vita odierna perché integri di realtà da diventare altamente affascinanti, attrazione turistica in alcuni casi.

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BETTINA BUSH

Essere per apparire e sembrare reale, oppure solo naturale.

Ognuno  può diventare personaggio per caso e costruire una immensa rete di contatti immediati.

Un gioco a cui è difficile sfuggire, dove esiste solo il presente, nessuno spazio per il passato e il futuro, tutti insieme contemporaneamente in una struttura orizzontale senza prima e dopo, per piacersi e mostrarsi, come vorremmo esser visti. Così l’autoritratto istantaneo è diventato il simbolo privilegiato dell’era dell’immagine dove conta soprattutto autocelebrarsi.

La nuova identità di ognuno non è più l’abito, un insieme materiale di codici stabiliti, ma l’immagine, eterea, immediata, o meglio infinita, senza limiti perché il reale è diventato un mondo lontano, adesso quasi sconosciuto.

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ANITA CALA'

Tutto ciò che è rivoluzione, porta ad una evoluzione. E questo cambiamento nel modo di comunicare noi stessi è un'evoluzione. Non esiste più il contatto diretto e materiale del corpo a corpo, e del giudizio della pelle nel guardare. Leggere, digitare, selfie, scrivere frasi ad effetto prese da poeti popolari, questo diventa il biglietto da visita odierno. Bugie, accrescimenti, foto ritoccate, avvenimenti importanti finti che creano nell'insieme una maschera. La stessa maschera che si crea con la conoscenza diretta. Entrambi i modi di comunicare possono essere filtrati . Per questo la vedo come un'evoluzione nella sua accezione positiva.

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LORENZO CANOVA

Le maschere elettroniche

Che le nostre identità siano multiple, che il mondo stesso sia un grande teatro e che noi indossiamo diverse maschere a seconda delle circostanze e delle persone che incontriamo è noto da millenni, non a caso il termine persona anticamente si riferiva proprio alla maschera teatrale. Oggi i social network e le nuove tecnologie non hanno fatto che esaltare questo tratto archetipico dell’essere umano, in una (auto) rappresentazione continua che ci mette in scena destinandoci a un pubblico molto ampio e con immagini dalla durata rapida ma dalle nuove possibilità di diffusione potenzialmente globali. Questa celebrazione del sé trova del resto antenati illustri in figure chiave delle avanguardie del Novecento come, ad esempio, Filippo Tommaso Marinetti o Salvador Dalì, abilissimi costruttori della propria immagine pubblica e del proprio costante mascheramento diffuso a livello planetario.

L’innesto su alcuni filoni della performance e della body art rendono poi questa rinnovata teatralità mediatica un interessante campo espressivo che, al di là delle banalizzazioni, può portare a nuovi risultati, in un’ibridazione che in passato era soltanto immaginabile, ma che oggi trova spazi e strumenti di comunicazione le cui possibilità meritano senza dubbio di essere approfondite e percorse, come avviene in questa mostra.

Dunque auguriamoci che la bacchetta di Prospero, il mago shakespeariano, possa dunque essere l’ideale guida di questo viaggio ulteriore, sospeso tra la rappresentazione e la vita, tra la materia del mondo e quella dei sogni, tra la realtà e l’illusione.

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