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LIKE "OTHER IDENTITY"

Hanno scritto sul progetto:

Giampaolo Abbondio | Edoardo Acotto | Alessandra Arnò | Claudia Attimonelli | Lidia Bachis | Emanuele Beluffi | Fabrizio Boggiano | Chiara Boni | Marco Bruschi | Bettina Bush | Anita Calà | Lorenzo Canova | Mario Casanova | Giulia Cassini | Annalisa Cattani | Piera Cavalieri | Claudio Cerritelli | Maurizio Cesarini | Rossana Ciocca | Anna d'Ambrosio | Valerio Deho | Amalia Di Lanno | Isabella Falbo | Anna Fiordiponti | Matteo Fochessati | Patrizia Gaboardi | Alessandra Gagliano Candela | Carlo Gallerati | Francesca Galliani | Roberto Garbarino | Nunzia Garoffolo | Carlo Garzia | Ferruccio Giromini | Romina Guidelli | Chiara Guidi | Flavia Lanza | Amelì Lasaponara | Marla Lombardo | Karolina Mitra Lusikova | Luciana Manco | Angelo Marino | Gianluca Marziani | Chiara Messori | Roberto Milani | Lorenzo Mortara | Ivana Mulatero | Maya Pacifico | Massimo Palazzi | Luca Panaro | Sabrina Paravicini | Claudio Parentela | Claudio Pozzani | Domenico Quaranta | Sandro Ricaldone | Mariella Rossi-Stefano Cagol | Claudia Sensi | Stefania Seoni | Ivano Sossella | Benedetta Spagnuolo | Federica Titone | Caterina Tomeo | Tiziana Tommei | Roberta Vanali | Venette Waste | Bruno Wolf.

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MARIO CASANOVA

La (ri)definizione d’identità è e rimane – in generale – uno dei temi caldi, che riapre un dibattito infinito di tipo sociale ma anche, per certi versi, antropologico attorno all’essere in relazione all’altro, dentro un mondo che cambia, e che ancora nasconde in sé molte banalità sensibili e troppe mistificazioni taciute sulla costruzione di un concetto accettabile di progresso e di modernità. Non solo perché lo studio sulle identità trova la sua genesi e si giustifica nella comprensione delle individualità e delle diversità, ma perché esso studia fortemente le particolarità delle minoranze altre in rapporto a dominanti sociali, politiche e religiose.

Francesco Arena, artista e curatore di OTHER IDENTITY, mi ha chiesto di scrivere due righe non obbligatoriamente legate alla sua mostra, e di esprimere delle mie considerazioni pertinenti a questo tema: in generale.

Esso è vastissimo, non più semplicemente correlato – come detto – allo specifico della sua mostra o alle identità pertinenti al corpo. Infatti, del tutto ordinario e ‘dépassé’ sembra oggi parlare di identità in ambito di espressione delle proprie sessualità; poiché non ci si dovrebbe ormai più esprimere in termini di una sessualità, quanto piuttosto su di uno spettro che rifrange molte sessualità, come se l’aspetto trans odierno, rinvigorito da un processo di virtualizzazione tecnologica e telematica, fosse l’unico vero strumento catartico per un passaggio da un periodo storico a un altro, entro un’epoca di guerre tra culture che tentano di reimporre goffamente e con tanta recrudescenza ognuna la propria idea di identità; una definizione che per secoli e, ahimè, ancora oggi sembra rimanere un dogma noioso, un assioma indiscutibile; cioè essere come la società ti impone di apparire. Una società spaccata nel suo eterno dualismo tra divinazione e incarnazione, e in equilibrio tra bene e (in)consapevolezza del male e della sua cattiveria dominatrice.

Ecco, quindi, che lo slogan illuminista e molto ‘radical’ Liberté, Egalité, Fraternité solo rimane uno tra le tante ipotesi impolverate per un miglioramento della società anche solo da un punto di vista classista; possibilismo, cui nemmeno più gli stessi illuministi forse credono di fronte alla forza dell’uomo e delle sue antropologie bestiali ed egoiche.

L’arte ha sempre rappresentato idealmente quel luogo dove si fondono, fuori dal tempo e da qualsiasi istituzione, proprio libertà, uguaglianza e fraternità. In un mondo dove la sessualità, la donna, i bambini e gli animali, ma soprattutto qualsiasi valore degno di attenzione, vengono sistematicamente sfruttati e calpestati pur di vendere anche solo un tostapane, paradossalmente – in arte – il tema delle identità dà fastidio, nella misura in cui esse rappresentano quel simbolo-traghetto nel verso della liberazione dal dogma, dell’evasione dalla prigione sociale e dalle divisioni razziali: un sogno, una visione, una utopia. Perfino il mondo stesso dell’arte è divenuto spesso luogo di istigazione all’antipatia, alla divisione e alla frammentazione, laddove competenza e competitività sono state sostituite da ruoli e competizione, e dall’aggressività: così come qualsiasi altra forma di radicalizzazione religiosa o politica.

In cosa consiste allora il corpo della cultura? Come si incarna l’identità? Con quali modalità e sembianze?

Ecco che in tempi di fusione culturale e integrazione sociale, per le quali abbiamo ceduto gran parte delle nostre libertà e conquiste individuali e culturali, e laddove i valori vengono sempre meno, riaffiorano simili quesiti; che sono anche questioni di opportunità e opportunismi.

Il secondo Novecento è stato determinante, direi illuminante, per farci capire quanto le ideologie, i dogmi e le avanguardie abbiano mal alimentato e plagiato le nostre fantasie e le nostre vite, millantando un concetto di progresso e di evoluzionismo fondamentalmente inesistenti se non per quanto attiene all’idea di nicchia. Il processo di democratizzazione ha fatto il resto. In questo senso parlare e argomentare oggi di identità, lo si potrebbe fare solo passando da uno stato identitario come marchio e imposizione sociale a un approccio quasi trans-sociale, eterotopico, cioè al di là dell’uso stesso della definizione di identità: processi di democratizzazione e di statalizzazione assolutamente involutivi per l’identità individuale e l’autodeterminazione dell’uomo, nella cui contravvenzione qualcuno vedrebbe, invece, un possibile sviluppo.

Nell’ambito della cultura visiva e non solo, dalla caduta delle avanguardie prontamente plagiate e sostituite dal mercato, l’arte è alla ricerca di una sorta di trans-identità, dove l’ibridazione, il metamorfismo, la fusione tra arte pura e applicazione dell’arte si muovono e dialogano nella ricerca di nuove forme identitarie e linguaggi estetici; una ricerca più libertaria e libertina.

Ed è proprio in quell’eterno difficile rapporto tra divinazione e incarnazione che si gioca il ruolo dell’individuo; nel dialogo monologico tra corpo e spirito, tra fede e dogma.

È rilevante lo sviluppo delle tecnologie applicate ai social network; essi incarnano da un lato il neo-surreale, il sogno di una vita parallela o forse un’isola che non c’è, dall’altro la liberazione dal confronto sociale diretto e la definizione di una estetica meno corporale e schietta, mediata e interfacciata.

Se l’arte va nuovamente verso il corpo dopo decenni di concettualismi assurdi, ci si deve pur porre alcune domande basilari, sia per la vita che per la sua ridefinizione attraverso lo stilema della cultura e delle arti.

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GIULIA CASSINI

Personaggi in cerca di "like"

"Non sarà mai felice chi si lascerà tormentare dalla maggiore felicità altrui", Seneca, L'Ira, III, 30, 3
Una volta i personaggi erano solo sei ed in cerca di autore, pirandellianamente, egoisticamente, a ventre basso ma con puntiglio cervellotico, oggi siamo un po' tutti personaggi, di vocazione edonistica,  ma in cerca di "like", di rassicurazioni, non importa se solo virtuali. E' questo forse uno dei motivi che ha fatto esplodere l'uso dei social network negli ultimi dieci anni, con implicazioni non solo superficiali, ma psicologiche ed intimistiche, andando cioè a cambiare non solo la rappresentazione del sé, ma anche la coscienza dell'io. Cristallizzare in un istante l'eternità di un sorriso, di una piega ben riuscita, di un vezzo, di una giornata importante come di un momento banale vuol dire rendere questo attimo ed in definitiva noi stessi unici, forti, desiderabili, incredibilmente vivi. Significa nascondere le "lune calanti", godere di un quarto d'ora di celebrità, gareggiare con gli altri a suon di preferenze, cercare di superare gli "amici" connessi con un'immagine che lasci trasparire più felicità, più ricchezza, più bellezza, più prestigio dell'altro. Sembra una perenne corsa al rush finale , marcando più forte la nostra identità, un'identità che è sempre meno privata e sempre più pubblica. All'inizio era il fotoritratto, la perfezione dell'inquadratura, la trasparenza dell'incarnato, le tavolozze cromatiche specifiche. Oggi è il selfie e nella maggioranza dei casi il selfie-ritocco. Siamo sempre più cammuffati, perennemente con lo smartphone o il tablet in mano.

Social è anche il lavoro, non solo per i comunicatori di professione a cui spesso è richiesta la specializzazione in "social media strategy" e la "bella presenza", ma per qualsiasi professione che abbia contatto col pubblico. E' qui che nasce la competizione serrata e lo stress, il tenersi sotto controllo in nome dell'efficienza e delle aspettative altrui, dando luogo ad un'esistenza invero separata tra reale e iperbolico, tra normalità ed eccezione, tra umanità e perfezione.

Non che sia tutto negativo e che col catino sporco si debba gettare anche il bambino: i social sono positivi quando sono un modo di lasciarsi andare, di dare libero sfogo ai propri sentimenti immergendosi nella preziosità del momento senza l'ansia di precipitare le cose. Ciò che conta nelle nostre giornate frenetiche è il fermarsi un secondo a pronunciare un'affermazione positiva per stimolare l'ottimismo ed indirizzarci su un canale tranquillizzante; cambiare l'angolo visuale ci serve a vedere le cose in modo diverso. Ma serve anche raccontarsi come siamo davvero per non trasformarci in una ridicola iperbole: come scrisse Schopenhauer la felicità e l'infelicità coabitano in noi e "nello stesso ambiente ciascuno vive in un altro mondo". Non appiattiamoci allora agli stereotipi della rete, al genoma del consumatore tipo, al fruitore passivo, alla moda, alla finta popolarità, ad una rappresentazione di noi artificiosamente studiata: non siamo fenomeni, non siamo tutti artisti, non siamo tutti popolari o primi della classe e soprattutto non siamo attori. A forza di costruirci finte identità non siamo più noi stessi: siamo tappezzeria in rete.

Una terapia soft antirigetto? Quella di provare a tracciare, incominciando almeno dai profili strettamente privati, una mappatura reale dei nostri stati d'animo, passando dalla nostra follia artificiale a quella naturale, dall'osservare e dal copiare al partecipare. Liberi di scegliere.  Ma tra rappresentazione privata e immagine pubblica c'è solo un asse che riconduce i due poli estremi, da nord a sud, da ansia da prestazione a pura felicità: l'asse terrestre, il ritorno al reale, al qui e ora, alla coscienza dell'io.

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ANNALISA CATTANI

Diritto alla noia

Della molteplicità, della diversità, della relazione e della noia.

Da tempo siamo stati definiti società dell’immagine, la nostra identità è stata a sua volta ridefinita come multipla, fluida, rizomatica, come Pirandello aveva già intuito in “Uno, nessuno e centomila”, ma tutto ciò era nulla a confronto con quello che sta accadendo attraverso i social network. I quindici minuti di celebrità proclamati di diritto da Andy Wahrol, sono diventati ore e ore e oramai diventa davvero difficile creare icone durature in qualsiasi ambito. Assistiamo ad una sorta di normalizzazione della star, ad un detournamentdi massa che sta facendo di creatività, trasformismo, creatività, stranezza, straniamento, quotidianità e norma.

E’ vero che una fetta consistente di coloro che partecipano attivamente alla social-virtual-life, tendono ad usare il loro profilo in modo piuttosto banale, ma molti diventano dei veri e propri professionisti del “pensiero divergente”, definizione che serbavo solo per artisti o comunque addetti ai lavori del mondo dell’arte. Da tempo, infatti, considero la pratica artistica, prima di tutto una modalità di articolazione del pensiero non lineare, che si esplica attraverso una non definibile varietà formale, fatta di entimemi e non di sillogismi, di grandi balzi, di piroette semantiche, salti mortali connotativi che obbligano la mente ad esercizi di stretching immaginativo e possono trasformare ad ampio raggio punti di vista e posizioni, attraverso un’omeopatia della diversità di pensiero e di azione.

Oggi in virtù, probabilmente, di una sorta di alfabetizzazione lampo data dalla fruizione, spesso in verticale, di una enormità di contenuti, si concretizza quella che nell’agiografia veniva vista come miracolosa “scienza infusa”. Cos’è la “scienza infusa”? Beh, di fatto un fenomeno paranormale, un miracolo che permetterebbe, a coloro che ne beneficiano, di possedere l’intera conoscenza da un momento all’altro, il dono delle lingue e dei codici disciplinari di ogni materia conosciuta. Bene, la rete permette un’infarinatura, o se non altro, una simulazione di sapere e di conoscenze che creano mitologie non più “del quotidiano”, soglia toccata dai reality, ma “mitologie nel quotidiano”. Si tratta allora di vedere se questa inversione di tendenza realizzi un miracoloso recupero sulla banalità raggiunta negli ultimi stadi dei media passivi, caratterizzati da dinamiche persuasive dell’interruzione (pubblicità all’interno dei programmi), creando attraverso i social network un nuovo pubblico che non è più spettatore, ma attore attivo, che crea modi e regole di fidelizzazione e soprattutto criteri di partecipazione.

Queste sottocomunità di follower, tuttavia, accanto ad alfabetizzazioni lampo,creano altresì la percezione della partecipazione, mettendo seriamente in discussione il criterio di presenza, del “qui e ora” . Lo si riscontra negli eventi dove il criterio di partecipazione oramai è dato dal semplice “cliccare” partecipo, mentre il “forse” stabilisce una sorta di solidarietà,supporto e dichiarazione di stima agli organizzatori, pur implicando una sicura non partecipazione attiva.

Questa simulazione della partecipazione, accanto all’ostentazione delle relazioni, porta a nuove modalità e percorsi di legittimazione che non presuppongono più la “pubblica relazione” ma si inverano anche attraverso il semplice contatto e crescono e maturano attraverso il consenso. Si creano veri e propri processi di fidelizzazione, gruppi di reciproco supporto che compensano sempre più il precedente “bisogno di visibilita” che spingeva ad una vera e propria “mania televisiva”. La visibilità social soddisfa maggiormente il bisogno di attenzione e di stima del singolo che modula la propria identità a poco a poco, misurando e prendendo gusto nel costruire, un post dopo l’altro la propria personalità unica ed irripetibile.

Tuttavia in un cyberspazio in cui la regola sta diventando infrangere la norma, rendersi originali, speciali non prevedibili e propositivi, cosa resta all’artista?

Forse la ricostruzione della banalità, il recupero del valore di un tempo ozioso, ma nonpassivo, la riscoperta della noia come un necessario stand by per creare lo scarto necessario all’effetto meraviglia.

L’artista potrebbe altresì prendersi carico della ricostruzione di “comunità” e non communities, dove misurare la familiarità e non il consenso, dove praticare il confronto e non l’automatica condivisione, dove la stessa ammissione del conflitto e del fastidio ribadisce il nostro “essere umani”. Ma soprattutto potrebbe essere una grossa scommessa arrivare all’ammissione condivisa di un vuoto da rifondare su corpi reali, su sensibilità presenti e sulla necessità di una credibilità ermeneutica volta ad un tentativo di progressione cognitiva ed emotiva.

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PIERA CAVALIERI

L’ identità non può essere rivelata. Solo l’incertezza può destabilizzare lo sguardo e proporci una narrazione nuova, anche irritante. Offuscare l’immagine ufficiale e mettere in scena un’immagine altra, immersa nel mondo irreale, postata, condivisa, è pratica comune. La possibilità di un’altra vita è ipotesi ammaliante.

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CLAUDIO CERRITELLI

Intorno al progetto “other identity”

Il progetto messo in campo dal fervore creativo e organizzativo di Francesco Arena sembra a prima vista una delle consuete istallazioni permutative basate sulla reciprocità dei mezzi oggi considerati più d’attualità: immagine fotografica, video arte, sperimentazione musicale, produzione di flussi multimediali, sperimentazioni transdisciplinari, mescolanze interattive che hanno a che fare con facebook, twitter e altri canali comunicativi: tutti mezzi mirati a restituire la dimensione sinestetica del volto corporeo dei linguaggi.
Il tema intorno a cui convergono le diverse anime del progetto non sembra discostarsi dal complesso ambito (costantemente esplorato dagli artisti degli ultimi decenni) che riguarda le riflessioni intorno agli slittamenti dell’identità, processi strutturati per mettere in crisi i modi di auto-rappresentazione.
Il fatto è che Arena – grazie alla versatilità del suo temperamento intellettuale- è in grado di filtrare i condizionamenti del “già sperimentato” riuscendo a documentare “altre forme di identità culturali”, un ampio panorama di ricerca che restituisce in modo problematico i mutamenti del presente in atto.
Attraverso la fluida aggregazione di opere-operazioni caratterizzate da differente tensione fisica e psichica emergono molteplici alterità, automatismi, reazioni, ossessioni, abnormità, narcisismi, pose e miraggi autoreferenziali.
Si tratta di movenze che producono stati di eccitazione della propria immagine attraverso il volersi situare al di là dei significati imposti dal sistema culturale, affermazioni di vitalità che si dilatano nella grande scena polisensoriale in cui ogni artista si espone al cosiddetto sociale andando oltre la riconoscibilità del ruolo che il mondo chiede all’individuo.
Other identity è allora uno stato di espansività interattiva dei linguaggi creativi che acquistano significato attraverso la connessione simultanea delle differenti soggettività, mai perdendo di vista il fatto che questa spinta sarà tanto più forte quanto più profondamente emergerà la coscienza del proprio essere in relazione con gli altri, sintomo di un contesto in continuo divenire.
Pur non conoscendo nel dettaglio il tenore degli interventi sollecitati e selezionati dall’artista-curatore Arena, sembra che la questione dominante non sia solo legata all’identità policentrica dei mezzi e delle strategie spazio-dinamiche, ma all’energia immaginativa che la dimensione “altra” è in grado di suggerire come adesione permutante allo spirito problematico del progetto. Per fissare i sensi controversi di questa differente e agognata identità, il progetto espositivo desidera soprattutto verificare le patologie e le enfasi comunicative che lo sostengono, non la celebrazione tecnocratica delle sue metamorfosi, in fondo già abbastanza scontata, piuttosto lo spazio delle ambivalenze e delle ambiguità che gli artisti esplorano come sospensione della soglia tra il soggetto e il mondo, limite indefinibile tra l’io e l’altro da sé.

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MAURIZIO CESARINI

Il discorso, che posso, che sento di formulare è certamente sotteso al mio agire artistico, da quando sin da ragazzo incontrai l'esperienza speculare di Urs Luthi, adottando il travestimento come modalità operativa delle mie performance. L'assetto identitario come una sorta di fiume carsico ha attraversato e attraversa tutto il mio lavoro. Ma vorrei fare alcune considerazioni oltre il mio agire, ma al tempo stesso strettamente connesse ad esso. Non penso l'identità come a una struttura solidamente definita da un assetto egotico, anzi credo che l'io sia una forma fuorviante, una sorta di vuoto riempito e costituito dalle macerie delle innumerevoli identificazioni immaginarie succedutesi nel corso del proprio tempo. Intanto il profondo paradosso è l'osservarsi, allo specchio o in una foto, credendo di essere ciò che l'immagine altra ci rimanda, procedendo così in una sorta di assuefazione immaginaria che ci spinge a credere di vederci. Naturalmente questo vedere genera una ambiguità sostanziale: noi crediamo che gli altri vedano ciò che di noi vediamo, ma essi non vedono ciò che noi crediamo di vedere, così se si dovesse usare una metafora fotografica direi che veniamo sempre un po' mossi.

Ciò che mi colpisce è che attualmente proprio questo meccanismo è enfatizzato da una moda definita selfie. Ad ogni occasione possiamo fotografare la nostra immagine nel contesto esperienziale che stimo vivendo, confermando-ci la nostra presenza ad essere in quel luogo, per poi inviare in tempo reale l'immagine agli altri, così da attuare una duplice strategia identitaria: mi fotografo= sono in quel luogo; invio la mia immagine = creo la testimonianza dell'altro al mio esserci. Dunque la proliferazione dell'immagine di sé diviene la compulsiva attestazione del mio esistere e la domanda che tale mia esistenza sia riconosciuta dall'altro. Oltre tutto mi sembra significativo che, specie nei social network, l'immagine di sé sia sempre più contestualizzata in un ambito ordinario, banale, rassicurante, come se la quotidianità più insignificante possa in qualche modo contenere e non disperdere quell'assetto immaginario nel quale fingo (non certo coscientemente) di riconoscermi.

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ROSSANA CIOCCA

Siamo sulla soglia,  dopo quasi un millennio dato dalla centralità del D'IO stiamo approdando ad uno spazio che definirei Re-Public, per cui Other è la perfetta sintesi; restiamo ancorati all'IO oppure sperimentiamo il diverso, spostandoci dal nostro punto di vista centrale?

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ANNA D'AMBROSIO

Se l'identità (intesa come visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano) é in parte plasmata dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o spesso da un disconoscimento da parte di altre persone.

Il riconoscimento che va conquistato attraverso lo scambio è una tipica preoccupazione dell'era che viviamo e fb in questo senso dimostra di riflettere in modo semplificato ed esplicito . Si crea una "self-validation " riconoscimento ed approvazione che come concetti sono tutt'uno con l'autostima.

L'età anagrafica è un parametro che bisogna definire perché si rapporta al processo di definizione della propria identità , dal latino IDEM….Io stesso. Esistono all'interno dei social dei condizionamenti reciproci e bisogna saper guardare attraverso chiavi di lettura ad hoc.

Le identità dei social sono evidentemente reali nel senso che hanno reali conseguenze per le vite degli individui che le hanno costruite.

Rale e virtuale sono quindi due facce della stessa medaglia che si sovrappongono e completano in una soluzione di continuità. In questo senso per le singole persone può divenire importante che il racconto di sé che propongono sui social sia poi coerente con le vite che realmente vivono.

I comportamenti online in un contesto non anonimo possono avere per la loro natura conseguenze sulla vita offline. Attraverso fb le persone fanno quindi -una dichiarazione d'identità-, quella che Walker chiama " pubblica dichiarazione d'identità".

Questa impostazione lascia ad ognuno la possibilità di scegliere una narrazione corrispondente al vero oppure , al contrario, contenente elementi inesatti o finti.

Da questo punto di vista facebook si presenta come luogo in cui la fragilità dell'individuo può trovare rifugio .

identità_fragilità_aspettative  = destino individuale.

Tutto ruota sulla dialettica del riconoscimento.

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VALERIO DEHO

Unonessunocentomila

“Ho scritto t’amo sulla sabbia e il vento a poco a poco se l’è portato via con sé”. Questo celebre verso dei poeti Franco IV e Franco I ha segnato il 1968 più o meno come “C’est ne qu’undebut, continuons le combat” che nello stesso anno evidentemente veicolava dei contenuti diversi. L’Io dilagava sospinto dall’Esistenzialismo e dal boom economico imperante in Europa anche se lo Strutturalismo stava cercando di portare un po’ di oggettività nelle scienze umane. Claude Lévi -Strauss, Louis Althusser, Jacques Lacan o Michel Foucault ci hanno provato a far scomparire le insopportabili identità soggettive dalla mappa della cultura. L’Écoleduregard di RobbeGrillet, Marguerite Duras e Michel Butor aveva portato la letteratura sulla soglia dell’occhio fotografico: si descrive senza aggiungere aggettivi, si cerca l’oggettività dello sguardo per confrontarci con la realtà. Basta commenti e considerazioni personali. Un po’ come il Gruppo 0 in Germania o i nostri Gruppo N e Gruppo T avevano tentato di spingere l’arte verso la scienza, per venir fuori dai pastrocchi dell’Informale. Eliminare o limitare la soggettività è stato l’impegno di generazioni di intellettuali e artisti, scrittori e palafrenieri delle avanguardie logico-matematiche.

Tutto vano. Negli anni Ottanta l’Edonismo reaganiano e il Pensiero debole hanno distrutto tutto. Gli artisti si sono messi a dipingere nella loro soffitta, i poeti hanno ripreso a interrogarsi sul proprio ombelico, le avanguardie si sono dissolte come nebbie mattutine, svelando un’enorme Montagna di zucchero in cui ognuno poteva trovare gratuitamente la propria identità con la propria faccina e il proprio pensierino della giornata. Tutti devono volersi bene ed essere amici e tutti possono esprimere pareri su tutto più volte al giorno, anche la notte e quando si è in bagno. Un universo di unicità si moltiplica più volte al giorno, l’Esserci o Dasein trova la sua iperbole nel selfie, passato e presente coincidono in un’eternità provvisoria, si lavora sempre non si sa per chi e sempre si sta in vacanza, tutti sono al centro dell’attenzione di tutti senza inutili pudori, gli specchi non riflettono più nulla perché ci pensano i devices, la realtà è un immagine in 3D.

Spegnate la luce quando uscite. 

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AMALIA DI LANNO

Il senso di Sé

Radici senza memoria gelano nel mobile caos; immagini, profili, aggiornamenti di stato, siamo incantati e intricati in una rete di apparenti miracoli. È necessario vedere, riflettere, agire. Mirare l’occhio e il cuore all’essenziale. Avere senso, dove è il senso, cosa significa agire con-senso e, soprattutto, siamo davvero convinti di conoscere il nostro senso, il senso di Sé? Possiamo essere qui e altrove eppure non siamo in nessun luogo, viviamo ma non sentiamo e senza sentire ci disperdiamo convinti che il virtuale sia reale, ma la realtà di senso ci sfugge. I sedicenti ‘ruoli’ si moltiplicano senza sapere, volere, valore, si finge a se stessi con-piacimento; un like, due like e via… una vita di like che però non piace. Ci si convince che un profilo sia un’identità, si vive in un ‘non senso’, ci si modifica nell’immagine, nello stato, nella continua presenza di un’assenza, si cerca nel vuoto pensando che sia pieno eppure, se soltanto volessimo incontrarci basterebbe il senso. È necessario osservare attentamente e praticare se stessi, nell’azione consapevole si allena la memoria e nella memoria si ritrova l’identità, il senso delle cose e di ciò che siamo. Non è nella contemplazione che possiamo conoscerci bensì nell’agire. Essere consapevoli delle azioni ma, ancor più, consapevoli di sentire profondamente che spetta soltanto a noi, e a nessun altro, dare un senso alla nostra vita. In tale percorso l’Arte è un punto d’inizio per parlare dell’enigma del senso, della ricerca dello stesso nell’esistenza umana; la pratica artistica ci offre la possibilità di ‘decodificare’ quel senso di Sé del quale abbiamo semplicemente dimenticato la sacra origine.

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ISABELLA FALBO

Le nozze del sé

Progetto di Critica Performativa di Isabella Falbo sul lavoro di Francesco Arena “Other Identity”. Altre forme di identità culturali e pubbliche, 2016.


L’intervento di Critica Performativa Le nozze del sé risponde visivamente al lavoro di Francesco Arena e al suo progetto curatoriale Other Identity, che indaga il tema della auto-rappresentazione del sé al tempo dei social networks, attraverso i lavori fotografici e performativi di 29 artisti internazionali.

Il progetto espositivo di Arena nella sua totalità è visto dal critico Isabella Falbo come amplificazione del lavoro dell’artista; l’intervento di Critica Performativa “Le nozze del sé” si sviluppa dunque sull’intera mostra e non sul singolo artista.

La Critica Performativa è scrittura che si trasforma in immagine, occhio critico che diviene corpo critico sulla scena, ibridazione tra pensiero interpretativo, performance e moda. L’intervento di Critica Performativa “Le nozze del sé” risponde visivamente al progetto espositivo "Other Identity" di Francesco Arena evidenziandone specificità e concetti attraverso una fashion performance che pone la riflessione sulla costruzione identitaria e sulla spettacolarizzazione della propria immagine nella ricerca del vero sé.


Se non sei nel web, non sei nessuno: oggi la costruzione e la comunicazione dell’identità personale e professionale parte dallo spazio elettronico e digitale di Internet.

La profezia “In the future everyone will be world-famous for 15 minutes" (In futuro ognuno avrà il suo quarto d'ora di celebrità) che Andy Warhol, icona della Pop Art americana, lanciò nel 1968,  è stata negli ultimi dieci anni completamente metabolizzata da tutti, metamorfizzando, attraverso l’uso indispensabile dei social, il processo di identificazione e comunicazione del sé.

Se tradizionalmente il viaggio nella costruzione della propria identità è affidato alle esperienze personali e la sua comunicazione consegnata ai segni vestimentiari creati dalla moda ufficiale, amplificata dalle controculture o dall’estro personale, oggi è indissolubilmente legata ai social e, il riflesso che decidiamo di dare di noi stessi al mondo attraverso la nostra immagine, riverbera di quello che ci creiamo attraverso i post su Facebook, Twitter, Instagram, ecc. A volte le due identità - reale e virtuale se ancora così si possono differenziare -  coincidono con imprudente fedeltà, altre volte sono indipendenti, l’uno avatar dell’altro.

La pratica del selfie è il compromesso più attuale tra chi realmente siamo e chi vorremmo essere; la facilità di creazione e di condivisione ha facilitato la conquista del “diritto all’immagine di sé”; L’uso dilagante di questa pratica di autorappresentazione appare come una verifica al diritto di esistenza che risuona come un urlo muto ai meccanismi del consenso.

Per gli artisti, il percorso verso l’indagine del sé è privilegiato poiché, coincidendo con un processo creativo, è terapeutico. Gli artisti di “Other identity” utilizzano tutti la macchina fotografica come mezzo d'espressione, image makers le cui pratiche artistiche partono dalla realtà dell’immagine e portano a visioni dell’immaginario che da collettivo diviene privato (Francesco Arena; Carlo Buzzi; Mandra Stella Cerrone; Massimo Festi; Anna Guillot; Sebastian Klug; Beatrice Morabito; Giulia Pesarin; Giacomo Rebecchi; Violeta Vollmer); pratiche artistiche che attraverso l’indagine del proprio corpo portano all'osservazione della propria psiche (Roberta Demeglio; Boris Eldagsen; Anna Fabroni; Teye Gerbracht; Barbara Ghiringhelli; Teresa Imbriani; Natasa Ruzica korosec; Lorena Matic; Chiara Scarfò) ed a una messa a nudo dell’anima (Pamela Fantinato; Giovanna Eliantonio Voig). Tuttavia, anche la verità dell’immagine più naturale è un gioco di maschere.


Il titolo “Le nozze del sé” dell’azione di Critica Performativa di Isabella Falbo, riferisce all’unione mistica tra Anima e Animus da cui nasce l'interezza del nostro Sé, arrivando così a comprendere chi e cosa in realtà noi siamo. Solo da un percorso di crescita personale di questo tipo potremo costruirci la nostra vera identità. [continua…]

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ANNA FIORDIPONTI

"La cultura fa riferimento alla capacita’ degli uomini di trasmettere il senso della propria esistenza" e le Identità diventano culturali quando le varie esistenze che le compongono si aggregano, diventano pubbliche, Other Identity, conservando ciascuna la propria peculiarità artistica ed umana soprattutto.

L' Arte del Comportamento è parte integrante di queste Identità culturali con i suoi vari linguaggi, Angelo Pretolani afferma in un suo scritto " ogni video vive di vita propria, concepito non come semplice documentazione di una performance ma come prodotto autonomo capace di viaggiare in parallelo all’esperienza performativa." Accanto all'Artista viaggia anche il profano spettatore, quasi all'unisono.

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