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LIKE "OTHER IDENTITY"

Hanno scritto sul progetto:

Giampaolo Abbondio | Edoardo Acotto | Alessandra Arnò | Claudia Attimonelli | Lidia Bachis | Emanuele Beluffi | Fabrizio Boggiano | Chiara Boni | Marco Bruschi | Bettina Bush | Anita Calà | Lorenzo Canova | Mario Casanova | Giulia Cassini | Annalisa Cattani | Piera Cavalieri | Claudio Cerritelli | Maurizio Cesarini | Rossana Ciocca | Anna d'Ambrosio | Valerio Deho | Amalia Di Lanno | Isabella Falbo | Anna Fiordiponti | Matteo Fochessati | Patrizia Gaboardi | Alessandra Gagliano Candela | Carlo Gallerati | Francesca Galliani | Roberto Garbarino | Nunzia Garoffolo | Carlo Garzia | Ferruccio Giromini | Romina Guidelli | Chiara Guidi | Flavia Lanza | Amelì Lasaponara | Marla Lombardo | Karolina Mitra Lusikova | Luciana Manco | Angelo Marino | Gianluca Marziani | Chiara Messori | Roberto Milani | Lorenzo Mortara | Ivana Mulatero | Maya Pacifico | Massimo Palazzi | Luca Panaro | Sabrina Paravicini | Claudio Parentela | Claudio Pozzani | Domenico Quaranta | Sandro Ricaldone | Mariella Rossi-Stefano Cagol | Claudia Sensi | Stefania Seoni | Ivano Sossella | Benedetta Spagnuolo | Federica Titone | Caterina Tomeo | Tiziana Tommei | Roberta Vanali | Venette Waste | Bruno Wolf.

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MATTEO FOCHESSATI

Un tempo erano i pittori e gli scultori, poi i fotografi, a definire le identità dei personaggi ritratti. Bernd e Hilla Becher dichiararono a proposito della celebre serie fotografica di August Sander Uomini del XX secolo: “Sander era un magnifico ritrattista che rispettava sempre il soggetto e ne riconosceva il ruolo. […] Accettava il soggetto proprio nel ruolo che aveva scelto di interpretare”. Ora sono i social media che ci restituiscono quotidianamente, in maniera spesso pervasiva, i volti (e le identità) della nostra epoca. Il ritratto fotografico generalmente non dovrebbe documentare solo quanto incluso nell’inquadratura, ma anche l’occhio, l’indole, la curiosità, la cultura del fotografo. Nella travolgente marea di immagini che ci sommerge, il cortocircuito tra soggetto fotografato e fotografante si salda invece sovente nella reificante riproposizione di stereotipi fisici e caratteriali del nostro tempo. Ma in realtà anche questa valutazione suona semplicistica e stereotipata. Il tutto e il contrario di tutto possono forse essere elaborati solo ricorrendo ad alcune keywords: ritratto; autoritratto; distacco; empatia; candidcamera; album di famiglia; travestimento; mutazioni; presenza; assenza…

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PATRIZIA GABOARDI

Accendere il pc, collegarsi ad un social network e iniziare a veder scorrere sulla pagina davanti a se nuovi selfies … Ma il Tizio qui davanti non si era già fotografato ieri davanti allo specchio mentre mostrava orgoglioso la sua nuova T-shirt? Oggi, perché si mostra sdraiato sul letto? Ma chi è costui in realtà? Uscirà mai di casa? Ah si! Giorni fa si è fotografato all’interno dell’ascensore mentre faceva una linguaccia, simpatico!

Ma lui non è il solo. Chiunque abbia uno smartphone ed un profilo social, si è scattato almeno una volta un selfie.

Un selfie è il risultato di uno scatto fotografico facile da realizzare, poco importa se la foto non è messa a fuoco in modo ottimale o scattata con una luce equilibrata.. si può anche sbagliare ma si è comunque protagonisti.

Il selfie è alla base della comunicazione sociale, il vero scopo di un autoritratto è la condivisione immediata di un’esperienza momentanea; una voglia improvvisa di comunicare agli altri cosa si sta facendo, provando, pensando, indossando, tramite uno scatto in grado di influenzare il modo in cui gli altri ci vedono.

Questa meccanizzazione del gesto creativo attraverso il mezzo fotografico dà la possibilità a tutti di apparire migliori, di avere un’immagine ricercata e di mettersi alla pari con chi utilizza con maestria l’arte della fotografia per esprimersi.

Visto però che una fotocamera in mano, come detto, ormai ce l'abbiamo tutti, bisognerebbe lavorare su noi stessi per imparare a fornire agli altri un'immagine il più sincera possibile di chi siamo. Ma non solo! Sarebbe esteticamente più interessante “impegnarsi” e condividere dei ritratti più decorosi, meno kitsch ed ammiccanti al limite dell’improbabile.

Sfruttiamo al meglio la nostra nobiltà low cost.

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ALESSANDRA GAGLIANO CANDELA

Alcuni giorni  fa su  un  social network girava un'immagine di Narciso che si specchia in un telefono cellulare. Il quadro originario era quasi sicuramente di Caravaggio, sottoposto ad un'operazione di “ready-made”, che da “L.H.O.O.Q”,

la Gioconda di Marcel Duchamp, alla Pop Art, alle più recenti invenzioni della pubblicità ha decontestualizzato e modificato   opere celebri ed oggetti d'uso.

Interventi di questo genere non scandalizzano più nessuno, ma nella sua semplicità l'immagine di Narciso che si specchia nel telefonino codifica una situazione che è sempre più evidente.

Il diffondersi della macchina fotografica incorporata in altri strumenti ha reso la fotografia una pratica quotidiana, che consente di documentare azioni e persone  in passato  non sempre  protagoniste. Fuori  dal circuito dei fatti memorabili dell'esistenza della persona media, nascite, matrimoni, compleanni il dispositivo fotografico pare essere entrato in un circolo vizioso, destinato a cogliere momenti di assoluta normalità che diventano prove da set  cinematografico. Non è soltanto il Narciso liberato ad alimentare i molteplici quindici minuti di celebrità di warholiana memoria, ma un intero apparato mentale, nel quale viene costruita quotidianamente un'altra identità.

L'uso continuo e generalizzato della fotografia, manifestazione di quella che Guy Debord ha definito la società dello spettacolo,  genera una sovrapproduzione di immagini spesso banali o addirittura agghiaccianti, per il loro corrispondere ad iconografie predefinite dell'immaginario medio, o per il mettere in scena momenti che appartengono semmai ad una sfera privata.

In questo trionfo della normalità e del conformismo mediatico, la fotografia come linguaggio artistico rivisita a volte immagini passate, spezza la quotidianità comune, incrocia  la pittura rivitalizzando con un processo inverso il riferimento delle origini, ripropone tecniche e dispositivi più antichi, dal foro stenopeico all'analogico, guarda il mondo e la società con un occhio attento, critico, ma anche malinconico.

Medium usato, a volte abusato, la fotografia si rivela sempre più il mezzo per la ricerca di un'identità che può percorrere molte strade, nella speranza che nei  molteplici incroci con la tecnologia trovi in fondo allo specchio la conoscenza.

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CARLO GALLERATI

Sul concetto di autorappresentazione ai tempi  dei  social  media.

(brevi considerazioni personali) di Carlo Gallerati

Il persistente martellamento compulsivo di testi e immagini, al e dal quale pochi umani contemporanei riescono ormai a sottrarsi, se non al prezzo di un’alienante quanto tormentosa e in fondo miserevole astinenza dal consumo di social media, sembra ineluttabilmente destinato a moltiplicarsi a dismisura.

Il fattore che progressivamente incalza a siglare una differenza rispetto al passato – quando autori e lettori rimanevano perlopiù distinti lungo i fianchi di un confine piuttosto netto – è invero quello della commistione: chi scrive e chi fotografa sono le stesse persone che poi leggono e osservano. In effetti, felicemente inaugurata dall’ascesa della tecnologia, una sorta di democrazia del fare aveva concesso a ciascuno tutti gli strumenti e le competenze basilari per inventare, elaborare, comporre, costruire; salvo poi degenerare – specialmente con l’avvento dell’era digitale – in un’anarchia espressiva caotica e beffarda, neutrale fino all’indifferenza.

Insopportabile, troppo umiliante, in un siffatto mondo di autori, rimanere eclissati tra la folla crescente per poi sprofondare in un inappellabile anonimato; quasi nessuno sa difendersi dalla tentazione di alzare la mano, e a farsi strada è un’anomalia del gusto per cui non sparire è preferibile anche al prezzo di un apparire banale o mediocre.

La contagiosa moda di dire comunque la propria – sia abbozzando parole per dar vita a liberi pensieri, sia raffigurando se stessi in divertite pose – ha per esito il generico sovrapporsi, sull’effettiva esigenza di informazioni, di un egotismo tendenzialmente futile e artificioso, e il frequente sconfinare di un sano e produttivo orgoglio narcisistico in forme embrionali di vanità schizofrenica.

Un atteggiamento altamente selettivo è dunque irrinunciabile: non potendolo ottenere da chi scrive e da chi scatta – prima, durante o dopo aver letto e osservato – è legittimo aspettarselo dagli operatori dell’informazione e dell’arte, in occasione di raccolte o di mostre che intendano proporre, con verosimile utilità sociale, quei segmenti di eccellenza comunicativa senz’altro esistenti: da scovare con prudente cura, soltanto, nel torbido guazzabuglio dei post e dei selfie pioventi a  dirotto.

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FRANCESCA GALLIANI

Con la tecnologia sempre più avanzata che abbiamo, tutto cambia a velocità una volta inimmaginabile ed ora divenuta realtà. Di vantaggi ce ne sono tanti basti citare l’Internet che ci da’ la possibilità di comunicare in tempo reale in qualsiasi parte del mondo.

La fotografia ha subito dei cambiamenti radicali. Chiunque oggigiorno può fotografare e fare una bella foto. Quello però che contraddistingue un’artista e’ che l’artista da’ un’impronta riconoscibile in tutto il suo lavoro in maniera consistente. Personalmente il mio modo di pensare cosa costituisce un fotografo e’ cambiato con l’avvento del digitale. Per me la camera oscura era sacra, parte integrante e necessaria per creare un’immagine. Se uno non fosse stato in grado di stampare per me non era un fotografo. La quasi morte di tutto quello relazionato a creare una fotografia: camera oscura, carte fotografiche, viraggi e’ stato rimpiazzato da un mondo digitale dove c’e’ anche la possibilità’ di avvalersi di stampatrici o macchine fotografiche facili da usare, basti solo pensare ai telefonini.. E’ stata una rivoluzione di apportarci alla fotografia che da un lato la considero una grande perdita perché il digitale non riesce a creare quello che la fotografia analogica riesce a darci. Uno dei grandi vantaggi di quando la fotografia fu creata era la capacità di dimostrare I fatti di quanto fosse avvenuto, poco a poco con alcune tecniche di cui solo alcuni se ne avvallavano si era create la possibilità di alterare un’immagine e il digitale ha reso possibile e accessibile un totale cambiamento. Basti pensare alle donne virtuali costruite in Photoshop, alla facilità di eliminare rughe, difetti di pelle, rendere una persona magra, grassa. C’e una capacità e facilità di alterare un’immagine e proiettare quello che si desidera. Ci sono vantaggi positive e negativi. A ognuno sta trarre le somme.

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ROBERTO GARBARINO

I Selfie antropomorfi del Sé

L'arte contiene le varie stratificazioni dell' essere nelle varianti possibili dell'archeologie dell' esistenza.

Ma che cosa e' l'essere riprodotto da un artista nell'immagine stessa che si riproduce?

I media hanno variato decisamente i modi di concepire e di assimilare la vita.

Questa mostra dal titolo esaustivo: "Other Identity" pone in evidenza come i mezzi di comunicazione hanno reso la vita diversa dove la distinzione nella logica stessa relazione di creare pensiero e anche il metalinguaggio espressivo. La fotografia agli albori del novecento impose all'arte nuovi modi e frontiere concettuali. Duchamp cambiò l' aspetto oggettuale dell' opera nella concezione. Ma oggi si pensa forse di più in maniera veloce al giocatore francese Duchamp. In tal modo si comprende il rapporto anche memorico del virtuale. Velocità , comprensione, pulsione, evasione, negazione, volere, ambire, comprendere e talvolta mancanza di pensiero di valutare di distinguere.

Autorappresentazione possibile, desiderio di essere ancora, di amare, di autorappresentare. Oggi si avverte il bisogno reiterato di essere nel virtuale possibile, in ogni attimo dell'essere, in nuove forme sempre riprodotte di iconografie speculari del se.

L' essere umano trova la sostanza di se stesso in nuovo io monade brechtiano in nuove dinamiche psicoanalitiche.

Warhol comprese questa esigenza riformulando l'istante interpretato dal virtuale.

L'istante diviene arte. La fotografia rappresenta oggi il modo per comprendere i vari fenomeni di trasformazioni culturali in nuovi terminologie e linguaggi.

Una mostra che confronta temi e stili diversi per comprendere la realtà possibile in cui viviamo, l' epoca cosi veloce, le orbite lente , le distanze , le carrucole, le nostre identità invecchiano ed e' bello rimanere nello spazio dell'istante.

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NUNZIA GAROFFOLO

Non parlerei di come è cambiata l’ immagine di noi stessi, ma della facilità del modo di presentarci, autorappresentarci con la nostra immagine, enfatizzata dalla tecnologia e dai social network, trasponendo ciò che era il dramma dell’ uomo moderno, considerando l’ uomo moderno mi riferisco alla nascita dello Stato borghese, epoca in cui nascono peraltro i primi studi di psicoanalisi ovvero Sigmund Freud e la scuola di Vienna. Ciò richiama il concetto di maschera, coscienza, individualità e soggettività. Quell’ antico dilemma che accompagna l’uomo, l’ uomo borghese in senso sociologico e non socio-economico, il conflitto tra il proprio Io e la maschera ovvero il vestimentum che indossa nelle esplicazioni della sua individualità all’ interno della società, enfatizzato da ruoli privati o professionali, divise invisibili o reali. Il buon uomo, la buona donna, il politico, il giudice e così via, forme di un essenza inesistente, un universo, un abisso. Questo resta, è atavico all’ umanità, come resta e si è consolidata la psicoanalisi, divenendo una scienza più sofisticata per chiarire, riordinare, classificare e curare vari tipi di umanità. Quanto a chi scrive ho sempre ritenuto che la filosofia e soprattutto l’ etica fosse un ricco thesaurus per assolvere alla medesima finalità e codesta è strettamente connessa all’ estetica, all’ analisi critica e sistematica del bello o meglio dell’ idea del bello. Perché parlo di tutto ciò? Ciò deriva dal duplice profilo con cui si osserva l’ altro, l’ altra identità, tema raccontato da questa rassegna fotografica e soprattutto dagli altri. Finora mi sono concentrata sull’ altro, sulla sua maschera che può esser o meno enfatizzata dal singolo individuo. Come? Semplicemente con le sue auto-rappresentazioni, i famigerati “selfie” (parola inglese che equivale all’ autoscatto fatto con uno smartphone, che sovente è immediatamente trasferito sui social network). Sorrido pensando che questa parola, la quale diventa un gesto - di cui anche io non sono immune, anzi spesso me ne avvalgo, unendo ironia, provocazione e condivisione, uno dei valori fondanti della mia individualità e del modo in cui considero la vita - ne richiama un’ altra, “selfish” che in inglese vuol dire “egoista” e fa pensare ad altro. A cosa? A un ego che cresce a dismisura, una percezione di sé che si eleva e dà vita al fenomeno contemporaneo del narcisismo di massa. Un gesto, l’autoscatto, il cui lontano, vetusto parente, é l’ autoritratto dell’ artista, che - diversamente da quest’ ultimo - si esaurisce nello stesso, portando anche l’illusione o peggio la presunzione di essere creativi. L’ arte è elevazione di pensiero e la fotografia o meglio ciò che rende la fotografia un’ arte non è il suo essere un mero contenitore di memoria, di ricordi, ma è consapevolezza, capacità di guardare e di guardarsi. Nella “selfie attitude” della stragrande maggioranza degli individui, codesta manca oppure lo sguardo di coloro che si ritraggono è lontano e privo di quell’ introspezione con cui l’ artista osserva sé stesso, gli altri e il mondo che lo circonda. La capacità di “insight” ovvero di guardarsi dentro vedere e riconoscere ciò che si è, iter foriero di un pensiero autonomo e di una autentica consapevolezza di sé è l’ antitesi del narcisismo di massa, il quale nasce da una distorsione della percezione di sé, priva di alcuna consapevolezza, fuorché quella esteriore, seppure esasperata. Tutto resta in superficie e la superficie diventa non più contenitore, ma presupposto, fondamento di un contenuto che non c’è, corollario di un vuoto che dilaga, un nichilismo sterile e improduttivo, privo di critica e di dinamismo intellettuale, quello contemporaneo.

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CARLO GARZIA

NARCISSUS-PSEUDONARCISSUS

Alle origini della possibilità di una duplicazione fisico-chimica del corpo umano e delle “cose stesse” la fotografia fu definita come “uno specchio dotato di memoria”. La memoria, il ricordo erano ancora concepiti solo come memoria volontaria, accumulo sufficientemente ben organizzato di eventi vissuti lungo un asse temporale e orientati da una intenzionalità.

Si era quindi ancora lontani dalle intuizioni di Proustsulla memoria involontaria, dal flusso di coscienza teorizzato da William James e applicato da James Joyce soprattutto nel Finnegan Wake, de “La Lettera rubata” di E. A. Poe (che sarà decostruita in un famoso seminario di Lacan), dall’esperienza dello shock di Benjamin. In realtà di questa famosa citazione bisognerebbe mettere a fuoco meglio più che la memoria l’immagine dello specchio, evocato probabilmente dalla superficie translucida dei primi dagherrotipi.

Quella lastrina di rame argentato, spesso inserita in un prezioso contenitore, implicavala fascinazione del doppio, del Doppelgänger, dell’ombra, nel soggetto fotografato e e idetizzato dalla lunga posa.

Al di là della velocità e rapidità performanti, il dagherrotipo e in generale le prime forme tecniche di immagine fotografica sono quanto di più simile si possa rintracciare nella lunga storia della produzione di immagini del sé, cioè della propria identità.

Nel piccolo, baluginante e fosforico display di un cellulare o nelle immagini dilatate e sempre più perfette dei videogames e di tutti gli altri strumenti di comunicazione interpersonale si produce una memoria effimera ed istantanea si un soggetto che si autodistrugge in quanto tale in pochi secondi. Il soggetto immette nella rete in tempo reale le informazioni più varie e/o irrilevanti credendo di contribuire ad allargare sempre più le maglie di un modello social, una complicità solidale e condivisa, una sorta di mathesis universalee di illusione utopica e amichevole.

Tutto questo per quanto orgasticamente e compulsivamente il dito digiti non corrisponde allo statuto reale dei media per due semplici motivi, il primo perché, come ci hanno insegnato, il media è il messaggio stesso e il secondo , più brutalmente, perché semplicemente il Soggetto non esiste. Certamente esiste nel senso comune come corpo più o meno ingombrante ma il suo paradigma è plausibile solo all’interno di un sistema dualistico, in un sistema cioè che separa l’ordine della natura da quello del simbolico, modello che parte da Platone  e arriva fino alla rivoluzione fenomenologica di Husserl.

In una società sempre più omologata che fornisce identità possibili quasi a comando e che paradossalmente cerca di recuperare la perdita del Mito attraverso produzioni cinematografiche e televisive, una società “liquida”, secondo una definizione troppo abusata ma efficace, il soggetto banale, l’everyone non può essere che un bricolage di brandelli di vita insignificanti, schegge di esperienza non pienamente compiuta, prodotto dell’autocombustione dell’Es e della sua organizzazione, può ricostituirsi parzialmente solo ponendosi come monade se pur un po’ ammaccata.

Il rapporto stabilito da Lacan tra inconscio e linguaggio per cui “l’inconscio funziona come un linguaggio” e l’altra tesi che sia il linguaggio a parlarci e non noi a usarlo come un qualunque strumento più o meno neutrale trova il suo fondamento in quello che lo stesso Lacan chiama “la fase dello specchio” cioè il periodo della primissima infanzia in cui si costituisce il primo nucleo, quasi un’archeologia, di quella che poi definiremo come identità personale. Il discorso è molto complesso e non è facile orientarsi nel linguaggio del famoso analista i cui scritti tra l’altro sono ricavati direttamente dai seminari che teneva ogni mercoledì alla Sorbona. Al di qua quindi della relazione che egli stabiliva tra il Moi e il Je, quella identità per cui io arrivo a pronunciare orgogliosamente  il pronome personale “Io” funziona in realtà come un sistema di differenze e di opposizioni esattamente come nel linguaggio si identifica il fonema come  l’unica unità fonica minima dotata di valore autonomo e distintivo.

Come già sosteneva Saussure il linguaggio, tutto il linguaggio, non è altro che un sistema di differenze.

Abbiamo sottolineato semplicemente la funzione costitutiva del linguaggio in relazione all’inconscio e al desiderio, torniamo ora all’assunto principale di questo intervento.

Nell’uso complessivo e sostitutivo del vissuto reale che si fa dei nuovi media, il “Je est un autre” di Rimbaud acquista una nuova verità e diventa il “ Je est lesautres”.L’identità tradizionale , quella nata con la cultura borghese dell’Io padrone del proprio destino implode totalmente. Il paesaggio esterno coerentemente diventa quello di Metropolis di Lang o meglio di BladeRunner di Spielberg o di “Total recall” di Whiseman, film che hanno in comune l’utopia negativa di un mondo popolato da esseri-macchina, ubbidienti ed eterei, cui solo la memoria e la fotografia permettono il raggiungimento di uno stato di coscienza e quindi di rivolta.

Si consuma definitivamente quella separazione dualistica di cui avevamo parlato e si avvia quella del macchinismo immaginato dall’illuminismo più radicale da Lamettriesino a Sade, solo che questa volta l’uomo-macchina è in versione immateriale, un replicante che esegue ciecamente o almeno acriticamente. Attraverso l’uso intensivo e la dipendenza accelerata del mezzo la cui funzione costitutiva di un doppio ideale assomiglia sempre più, almeno metaforicamente, allo specchio di Lacan. La complessità dell’ego si sfalda e si riversa nelle sue performances e nel suo behavioure si viene analizzati solo in funzione dei propri comportamenti esterni, prescindendo completamente dall’articolazione di una forma interiore che per comodità chiameremo ancora personalità o sentimenti. Regredendo quasi ad uno stadio infantile e mitico l’utilizzatore terminale dei nuovi media non percepisce l’icona o il fantasma come separati da lui, si confonde con il suo involucro esterno e nello stesso tempo si adegua all’immagine speculare che lo fronteggia come doppio idealizzato, come Super io.

Come diceva Derrida la vita diventa “l’origine non rappresentabile della rappresentazione” di un mondo non più dualistico ma monistico,la sua unica filosofia possibile e gli umani, in maniera apparentemente delicata, si rinchiudono in quelle bolle trasparenti che troviamo nel mondo visionario di Jeronymus Bosch.

Il quadro che ho cercato di tracciare non è certo quello che viviamo oggi ma è pensato sui tempi più dell’antropologia che della storia, un accumulo progressivo ed entropico in cui l’organico e il meccanico diventeranno inscindibili, una realtà futuribile ma non impensabile e di cui cominciamo a scorgere i primi elementi di una futura “archeologia” come direbbe Foucault.

Se è vero che è la vita ad imitare l’arte, il suo immaginario però è già oggi ampiamente rintracciabile nel cinema, nella letteratura, nella musica e nel continuo mescolarsi dei vari linguaggi artistici e comunicativi. 

Concluderei con questa affermazione di Claude Lévi-Strauss tratta da un seminario dedicato all’identità e pubblicato già nel 1977 “ le nostre piccole persone si avvicinano al punto in cui ciascuna deve rinunciare a considerarsi come essenziale per vedersi ridotta a funzione instabile e non a realtà sostanziale, luogo e momento egualmente effimeri, di concorsi, scambi e conflitti cui partecipano, da sole e in una misura ogni volta infinitesimale, le forze della natura e della storia, supremamente indifferenti al nostro autismo…..”

L’antropologia appunto…..

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FERRUCCIO GIRONIMI

Sì, guardarsi con insistenza allo specchio significa anche apporre modifiche al proprio aspetto – significa aspettarsi di più anche da sé stessi.

Può essere faticoso. E irrealistico.

La costruzione di un Sé pubblico non è solo marketing personale, né solo strategia di comunicazione, ma pure decostruzione di un Sé precedente, più ordinario, e produzione di un Altro da Sé, più fantasioso.

In tale percorso si insinua un verme solitario, un germe di schizofrenia.

Ogni Dottor Frankenstein diviene – lentamente o velocemente – una Creatura di Frankenstein.

Può essere persino divertente. E addirittura realistico.

Come un horror movie con buoni effetti speciali, che ora spaventa e ora diverte.

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ROMINA GUIDELLI

Assolutamente interessante...indagare il gioco dei ruoli concede una parte ludica al lavoro che riflette un sentimento di "legittima difesa", meno divertente, ma totalmente affine.

Arte sa affrontare analogia e differenza in unica immagine...potere di un colpo d occhio muto. 

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CHIARA GUIDI

Lo specchio social continua a riflettere/ci, senza Cocteau, ~ogni lato del nostro prisma che modifichiamo, ~ nel pendolo meteoropatico dell'evento.

Monumentalizziamo arcaicamente i font, ma gli evidenziatori gialli, non hanno il tasto Blue like.

Il memo e il meme, si mescolano nei NOfilter digitali.

Hastgghiamo senza il Perec quotidiano e, non cataloghiamo più i nostri libri trascorsi.

Emogiglifici descriviamo stati gourmand  e, come gli egizi veneriamo i gatti.

Ogni Still é un life & un live, nell'edit del profilo.

Tutittimo, rituittiamo, citiamo il tuit del villaggio e, cosi notifichiamo il nostro account.

Tutto emerge, tutto ci appare, ma non ventimila leghe sotto il web dove restiamo ancorati nell'umano sottomarino, del nostro profumato esistere.

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FLAVIA LANZA

Leggo in rete: “La ‘selfite’, rivelerebbe una mancanza di autostima e lacune nella propria identità, tali da portare poi il soggetto a compensare l’immagine di sé attraverso la presenza artefatta e accurata sui social network”.  E... ebbene sì, sono alla fermata dell’autobus, “scrollando” le pagine del mio strumento di contatto con “il resto del mondo”, il mio vecchio e fedele iPhone, dopo essermi fatta un selfie in una posa da “faccia memorabile delle 6.30 di un lunedì mattina”. Un ragazzo e una ragazza, di fianco a me, ridono accoratamente, lui indicando a lei lo schermo del suo smartphone, dicendo:

“Hai visto che figata il selfie che ho postato stamattina?”.

La mia colonna vertebrale è scossa da un tremito...: “La ‘selfite’, rivelerebbe una mancanza di autostima e lacune nella propria identità... “. Uhm... non c’è da occuparsene, mi dico, si tratta solo dell’incessante trasferimento di InFormAzioni... le mie, le tue, le nostre, le vostre e... le loro.

E tu? Che cosa hai postato oggi? Parole, immagini, suoni... idee, impressioni, stati d’animo?...

“A cosa stai pensando?”.

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