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LIKE "OTHER IDENTITY"

Hanno scritto sul progetto:

Giampaolo Abbondio | Edoardo Acotto | Alessandra Arnò | Claudia Attimonelli | Lidia Bachis | Emanuele Beluffi | Fabrizio Boggiano | Chiara Boni | Marco Bruschi | Bettina Bush | Anita Calà | Lorenzo Canova | Mario Casanova | Giulia Cassini | Annalisa Cattani | Piera Cavalieri | Claudio Cerritelli | Maurizio Cesarini | Rossana Ciocca | Anna d'Ambrosio | Valerio Deho | Amalia Di Lanno | Isabella Falbo | Anna Fiordiponti | Matteo Fochessati | Patrizia Gaboardi | Alessandra Gagliano Candela | Carlo Gallerati | Francesca Galliani | Roberto Garbarino | Nunzia Garoffolo | Carlo Garzia | Ferruccio Giromini | Romina Guidelli | Chiara Guidi | Flavia Lanza | Amelì Lasaponara | Marla Lombardo | Karolina Mitra Lusikova | Luciana Manco | Angelo Marino | Gianluca Marziani | Chiara Messori | Roberto Milani | Lorenzo Mortara | Ivana Mulatero | Maya Pacifico | Massimo Palazzi | Luca Panaro | Sabrina Paravicini | Claudio Parentela | Claudio Pozzani | Domenico Quaranta | Sandro Ricaldone | Mariella Rossi-Stefano Cagol | Claudia Sensi | Stefania Seoni | Ivano Sossella | Benedetta Spagnuolo | Federica Titone | Caterina Tomeo | Tiziana Tommei | Roberta Vanali | Venette Waste | Bruno Wolf.

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AMELI' LASAPONARA

In principio fu la televisione.

L’oggetto del desiderio per eccellenza. L’oggetto come specchio del soggetto. Il cilindro da cui estrarre i desideri, le storie , le buone abitudini che ci volevano famiglie felici in un paese felice.  Un universo proiettivo, immaginario, simbolico. Una scena da guardare, da imitare. Una scena che è  un filo diretto con l’esterno, con il mondo con cui instaurare un rapporto di conoscenza attraverso la “ visione”.

Ma lo schermo cambia, la tecnologia aiuta, in questo. Lo schermo diviene scena attiva… c’è la rete, una sorta di fibra secante che abbatte le barriere spazio-temporali, le distanze e và, al di là di ciò che è materialmente possibile.

Le nostre vite sono totalmente controllate da un flusso smisurato di informazioni che ci riguardano, dal conto online, alle relazioni social, all’e-commerce. Noi siamo in Rete, noi siamo la Rete. Il che vuol dire che siamo ben oltre i “quindici minuti di notorietà” profetizzati da Andy Warhol.

Esistiamo  in balia di ciò che il filosofo francese J. Baudrillard definisce ”estasi della comunicazione”.Viviamo attraverso i social, nelle fitte maglie della comunicazione contemporanea, come animatori  della gabbia di controllo che ci rende protagonisti e prigionieri allo stesso tempo. E’ come se fossimo in una cabina di regia in cui decidere cosa rendere noto di noi, cosa pubblicare, cosa modificare.  Il rapporto con la nostra immagine, inevitabilmente,  è regolato dall’apparire in un certo modo, virato, modificato, tagliato. E’ come vivere in un set televisivo, fotografico.  Rispetto al telespettatore passivo, finalmente siamo registi della nostra vita vissuta in immagini pubbliche. Di quelle immagini che vogliamo ci rappresentino all’esterno. Anche se spesso, l’io reale, sfugge al lavoro di allestimento di scena.

Ma  la cabina di regia, non è forse una scatola, un guscio in cui l’altro da noi vede il sé, rimanendo, inevitabilmente imprigionato da  una serie di filtri posti tra noi e la realtà? Primo tra tutti il medium utilizzato. Allora siamo soli o social? Siamo l’idea di noi o altro?

Ed allora se in principio era la televisione, la fine sarà l’illusione?

La realtà dissolta nel più reale del reale, i simulacri? E se questa abnorme comunicazione ci avesse sprofondato in una saturazione di senso dove la verità è in opposizione all’illusione, e quest’ultima fosse percepita come più reale, del vero….?

E allora chi salverà la realtà? I nobili oppositori dei social? O essi stessi  saranno inghiottiti dall’anonimato di chi non ha “immagine”? O finiremo nel semplice oblio di una memory card, di un hard disk che tra qualche decennio risulterà illeggibile.

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MARLA LOMBARDO

Tutti abbiamo un destino comune. Siamo collezionisti di illusioni evocate che si irradiano a distanza fino a significare qualsiasi cosa. Ci piace, insomma, masturbarci con infedeltà multiple di noi stessi.

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KAROLINA MITRA LUSIKOVA

Anni fa, durante un esame di Antropologia Visuale preparato in un paio di giorni (e di notti insonni), dissi esser stata molto colpita dal parallelismo fatto dall’autore del testo tra la rappresentazione di sè della tribù del nord Africa nelle foto anni ’60 e i simboli della classe sociale di appartenenza presenti nei primi ritratti dei mecenati borghesi, i mercanti fiamminghi. Ero stata affascinata da come quei quadri ritraenti il personaggio in abiti e situazioni quotidiane fossero in realtà costruiti secondo dei canoni molto rigidi: nessun oggetto, nessun gesto era lasciato al caso. Ogni  elemento, perfino l’espressione, era un simbolo deciso dal committente per    dichiarare la sua posizione socioeconomica. Altrettanto attenti ad ogni dettaglio risultavano i membri della tribù africana: l’antropologo ci forniva la dettagliata descrizione del rapporto tra la loro posa e il loro abbigliamento e il ruolo nella loro società. Alla fine non presi il massimo dei voti poiché, a quanto pare, questo parallelismo era stato inventato da me di sana pianta sul momento. Con la crescente diffusione dei social network, mi ritrovai a pensare molto spesso a questo episodio di fronte a ogni foto pubblicata online. Non riesco a frenarmi dal dissezionare ogni immagine negli elementi che la compongono e studiare il rapporto tra intenzione del soggetto/reale messaggio trasmesso, assegnandoli il G.S.C. - Grado di Credibilità    del Selfie. Questo atteggiamento nel tempo mi ha portato addirittura a stimare la coerenza di alcuni personaggi “superficiali” che vivono solo della loro immagine, il   loro duro impegno nell’infallibile autorappresentazione, tanto più stimabile quanto più lontana dalla realtà effettiva. Trovo banale l’accusa di falsità mossa ai social network, d’altronde le classiche biografie dei grandi personaggi non sono tutte   romanzate?

Piuttosto proporrei uno studio di questa “falsità”: abbiamo a portata di mano una vastissima quantità di dati non elaborati aggiornati in tempo reale degli “ideal self” di ognuno. Proposta di autoanalisi: scorrere le proprie foto e chiedersi il motivo che ci aveva indotto a pubblicarle, il rapporto tra la situazione rappresentata e il contesto reale in cui sono state  scattate.

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LUCIANA MANCO

La possibilità di mostrarsi corrisponde alla possibilità di annullarsi. Poter essere un corpo, una presenza in un luogo, dove esiste solo ciò che quel luogo, quel corpo, raccontano. E puoi nascondere ferite, ricordi, cicatrici. Puoi fingerti altro, un essere che beve un cocktail in un bar molto figo, protetto dietro al velo della superficialità, che non racconta niente, che si ciba di presenzialismo. Posare significa mentire. Mentire significa essere vili, ma anche proteggere. Dire mezze verità, non mostrare cedimenti, debolezze. Non farsi cogliere impreparati. Appaio, mi spoglio, e sparisco. Esiste solo il desiderio di me, senza il peso di quel che sono.

Di tutto quello che c'è, intatto, dall'altra parte del seno.

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ANGELO MARINO

I nuovi media? Una importante possibilità per la comunicazione assimilabile come rivoluzione/evoluzione all’invenzione dei caratteri mobili di Gutenberg. Poi ogni uno si travesta come meglio crede perché l’umanità lo fa dalla notte dei tempi in quanto soggetto/oggetto del proprio creare e sempre in relazione al grado di tecnologia di cui dispone e/o ha disposto durante il lungo cammino evolutivo.

Se non ci fossero bisognerebbe inventarli.

E’ l’Uomo mutevole e mutante, bellezza!

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GIANLUCA MARZIANI

Seguire la storia della posa fotografica nel Novecento segna l’andamento di un IO in perenne conflitto tra istinto (individuale) e ragione (sociale). Oggi, da quando è quasi scomparso il concetto di stampa cartacea in ambito foto amatoriale, l’istinto soggettivo si è spostato sul piano sociale (sembra che il mondo intero sia contaminato da una frenesia ossessiva per fissare rapsodici frangenti di sé), mentre la ragione fotografica guida ormai solo alcuni su un piano strettamente selettivo e, quindi, individuale.

Viviamo dentro un’onda elettronica inarrestabile che avrà esiti di temporanea catarsi, al punto che le necessarie evoluzioni passeranno per alcune apparenti involuzioni nostalgiche (il vinile che cresce di produzione ne è un perfetto esempio). L’istinto sociale procede velocissimo e plasma la visuale sul mondo, i movimenti posturali, le nuove patologie ma anche le sistematiche modellazioni del Genoma post duemila. La ragione non è mai stata così… individuale.

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CHIARA MESSORI

Sui muri di Berlino, nell’ormai lontano 1994 potevi leggere un manifesto che recitava così:

“ Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero”

Queste sarcastiche parole risuonano attuali, ora più che mai...

Viviamo il tempo della  «modernità liquida», prendendo in prestito le parole del sociologo Bauman, in cui vengono a mancare le antiche certezze di Stato-nazione, famiglia, lavoro e l’individuo non ha più garanzie di appartenenza. Ognuno fa parte di comunità guardaroba, che funzionano a tempo, stanno assieme fino a quando qualcuno non decide di riprendersi il suo abito e uscire di scena. E’ un mondo in cui la strategia del carpe diem diventa quella vincente.Oggi, trovare un' identità, un'appartenenza diventa sempre più difficile e altrettanto più necessario. In un momento storica in cui il villaggio globale ipotizzato da Mcluhan negli anni ’60 del secolo scorso diventa sempre più reale, ecco che, tramite l'avvento del satellite, che ha permesso comunicazioni in tempo reale a grande distanza, il mondo è diventato “piccolo” assumendo, di conseguenza,  i comportamenti tipici di un villaggio. In questo contesto il linguaggio iconico diventa gergo internazionale e la comunicazione di massa si fonda per l’appunto sull’iconicità di questa lingua.

“Other Identity” - altre forme di identità culturali e pubbliche – è un grande progetto, “un lavoro” cui prendono parte artisti che sviluppano i temi dell’autorappresentazione del sè, dell’immagine pubblica e di quanto siano cambiati questi concetti con i nuovi linguaggi introdotti dai social media.

L'identità non è un dato anagrafico e naturale, è piuttosto un processo di costruzione, lungo, elaborato e mai finito. «L'identità è un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica - dice Bauman e ci si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora».

Il social network consente di controllare e definire la propria identità sociale e quella dei propri amici. La fusione tra mondo reale e virtuale  produce un'«identità fluida», allo stesso tempo flessibile ma precaria, mutevole ma incerta.

 La realtà attuale finisce per trasmetterci incertezze e paure: «Sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente… ».

Gli artisti di “Other Identity” investigano, attraverso la tematica identitaria, diversi discorsi: in primis coniugano la tradizione del ritratto, di matrice rinascimentale, con lo studio del medium e non solo del messaggio veicolato dallo stesso, inoltre si propongono di creare qualcosa di esteticamente pregnante. Credo che quest’ultimo punto sia fondamentale.

In una società sempre più always on, perennemente connessa a una rete telematica satura di immagini commerciali, la necessità è proprio quella di vedere immagini NON commerciali. E’ urgente il bisogno di uscire da un’estetica mirata al sollecito del solo consumo per abbracciare produzioni artistiche atte a stimolare il pensiero.

Indagare l’identità fluida, oggi, significa fare un atto di coraggio, fermarsi, guardarsi indietro ma senza smettere di camminare in avanti...riflettere...ripensarci come singoli, ragionare su di noi, sul nostro presente e,  soprattutto, su ciò che stiamo diventando per capire, assorbire, attutire e goderci tutto ciò che accadrà.

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ROBERTO MILANI

"Non fidarsi delle apparenze" dicevano i nostri vecchi, una volta. Immaginiamo se questi ultimi fossero ora fra noi... sarebbe tutto un "lo avevo detto", "vedi? avevo ragione...".

Si perché siamo stati traghettati dalla generazione di "essere o avere" a quella di "apparire o non apparire". E le apparenze ingannano. Eccome se ingannano...Tutto è ego. Spropositato, immenso...

La generazione del "sempre connesso", sta mettendo davanti e sopra tutti la comunicazione. E non sempre tutto ciò è positivo... Diciamocela tutta, cosa ce ne frega se la casalinga di Voghera ha cucinato il pollo in fricassea? Nulla, ma lei lo posta su fb e tutti siamo in qualche maniera coinvolti in questa evoluzione culinaria, Così per il colore delle unghie, la vacanza premio o la nuova automobile... Per non parlare dell'arte e della fotografia... Ma se per quest'ultima basterebbe rimettere in circolazione solo macchine con la pellicola e l'80 % dei fotografi mediocri in circolazione sparirebbero in un men che non si dica, con la pittura la cosa è diversa... Qui l'80 % dei neo artisti non solo produce cose inutili ma le fa anche male!

E allora? si sopperisce con il selfie. Carino simpatico, divertente... e così si arriva ad apprezzare cose che mai avremmo pensato anche solo di prendere in considerazione solo perchè l'autore "ci sa fare". Insomma la comunicazione fai da te che da i suoi risultati... E che risultati.

Ma non è tutto negativo, anzi! In rete si trovano talenti, virtuosi e innovatori. Basta saperli cercare... qualche consiglio; 1) evitare le pagine con troppi selfie, torte e cagnolini/gattini; Gli autori troppo spavaldi nonostante le evidenti carenze. Il "famolo strano" andava bene per Verdone, farlo "strano" in arte non è sinonimo di "buona" ate; 3) ricordarsi, ogni tanto, che ci si può anche scollegare e dire le cose guardandosi negli occhi senza il filtro della webcam... per il resto è tutto positivo, anche l'arte!

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LORENZO MORTARA

Autoreferenziale, autocelebrativo, il selfie è diventato virale. Causa o effetto del mondo globalizzato in cui viviamo? Nel mondo dei consumi e dei mutamenti continui della società contemporanea, tra virtuale e reale, sembra essere diventato la nuova chiave di interpretazione per svelare e chiarire i nostri momenti di vita, stati d’animo, felicità, speranze, ma anche le nostre perplessità, i nostri dubbi e le nostre incertezze.

Nuovo mezzo di comunicazione? Indice di fragilità del nostro io in cerca di unità, di continuità con l’altro che è in noi e con gli altri? Originale modalità di ricerca dei nostri desideri più profondi? Oppure pura e semplice acquisizione tecnologica e psicologica? Miglioramento dei nostri livelli di libertà di movimento non solo nello spazio ma anche nel tempo? Arduo trovare le giuste risposte ora, importante però analizzare e cercare di interpretare questo nuovo fenomeno di massa e i suoi possibili sviluppi in relazione ai meccanismi dei media, in relazione alla transitorietà e precarietà dei rapporti umani e alle incertezze economiche e geografiche di vaste aree della popolazione mondiale.

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IVANA MULATERO

Via con la pazza folla

Gli strumenti del comunicare influenzano il comportamento sociale nelle grandi e piccole cerimonie della storia pubblica e privata che si svolgono in diretta e in cui il tema dell’identità s’impiglia in piccole storie di infinita alterità.

Vi è una tendenza di ricerca che è andata intensificandosi nel corso degli ultimi decenni, fino a divenire una materia della riflessione degli artisti, sulle tipologie di identità e sulle forme culturali  che insistono sulla fragilità e aridità dei sentimenti e sul fallimento della comunicazione fra gli individui in una società perduta nella veloce estraneità del mondo.

Qual è il senso del vivere in una società dominata dal bisogno bulimico dei selfie?

Eternare  la propria presenza incorporea, come un messaggio in bottiglia nello stagno domestico (dove il tempo mitico delle pose di Narciso, teso ad afferrare se stesso, si tramuta in una serialità svuotata di identità).

L’istante in cui guardiamo noi stessi, un’immagine come nostro doppio incorporeo, porta con sé la certezza di sapere che si sta osservando qualcosa che chiunque può osservare. Noi, attraverso i mezzi di comunicazione contemporanei, siamo “chiunque” e ci immergiamo nella pazza folla come pubblico di noi stessi.

Le nostre immagini non sono più di natura individuale anche se hanno un origine interiore. Esse hanno interiorizzato il concetto di folla, e noi siamo abitati da immagini collettive che ci lasciano capire che non percepiamo il mondo soltanto come individui, ma su un piano collettivo che sottomette la nostra percezione relativa a un’attuale forma temporale. Ormai il fenomeno è così diffuso, la costruzione apparente dell’identità attraverso i media un processo inarrestabile e maturo, che possiamo anche non essere consapevoli, quando partecipiamo a questi riti,  delle implicazioni e, tuttavia, ancor di più si rafforza in noi la sua wirkung (l’effetto collettivo), come se l’immagine esistesse in virtù di una facoltà propria.

In epoca post-coloniale le immagini scatenano conflitti. A un primo livello di soggettività pubblica, politica e democratica, le immagini stanno conoscendo una fase cruciale dagli esiti incerti e dove il banco di prova è rappresentato dai risvolti che la tragica vicenda di Charlie Hebdo lascia presagire. C’è poi un secondo piano, prettamente individuale che si autodetermina in un post-umano in cui il corpo è un limite facilmente superabile nella riconfigurazione della chirurgia plastica. Fuggiamo dal nostro corpo e ci rifugiamo nell’incorporeo dell’immagine. “Immanenza e trascendenza del corpo trovano conferma per noi attraverso le immagini alle quali imponiamo questa controtendenza. I mezzi digitali odierni cambiano la nostra percezione – così come tutti gli altri mezzi tecnici prima di loro – eppure questa percezione rimane ancora legata al corpo. Soltanto nelle immagini ci liberiamo al posto dei nostri corpi, verso i quali dirigiamo uno sguardo a distanza. Gli specchi elettronici ci raffigurano così come vorremmo essere, ma come in realtà non siamo. Ci mostrano il corpo artificiale che non può morire, facendo sì che le nostre utopie si avverino in effige” (H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma 2013, p. 35).

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MAYA PACIFICO

Crearsi un'altra identità è una forma di infantilismo, siamo adulti bambini alle prese con un nuovo giocattolo: il social network. Quando gli adulti-bambini si annoiano diventano cannibali. Sono capaci di nutrirsi solo della vitalità altrui e proprio per questo non si percepiscono. E siccome non si percepiscono non possono vivere, e sono avidi soltanto dello sguardo o del like altrui, come i vampiri hanno bisogno del sangue degli altri.

Le persone che non hanno percezione di se stesse sono in fondo molto noiose e quindi prendono in prestito un'immagine che non appartiene loro ma che rimanda a ciò che è accettabile nel mondo dei media. La percezione che l'uomo ha di se stesso è molto più interessante della comprensione e dell'analisi del suo essere. Ecco perché andiamo alla ricerca della percezione che hanno gli altri di se stessi e non del loro vero essere.

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MASSIMO PALAZZI

Premetto che non sono la persona più adatta a scrivere di ritratto e identità in tempi di social network se non altro perché ne so poco e niente. La mia frequentazione di Facebook è saltuaria e distratta,  non ho un telefono che si connetta a internet o sia in grado di scattare foto decenti, ho una vaga idea di cosa siano Instagram e Whatsapp, ma soprattutto non amo essere social, cioè in generale non mi interessa far sapere ad altri quello che faccio e che non faccio. Non ho insomma quell’esigenza di condivisione, di comunicazione di me attraverso l’immagine, che mi sembra lo stimolo principale per la proliferazione delle identità digitali. È un problema mio.

Nonostante ciò, penso che sarebbe quanto meno interessante capire quali sono le conseguenze iconografiche di una continua incontrollata proliferazione di autoritratti che non ha precedenti. Comincerei mettendo da una parte tutti quelli che sono gli emblemi di sé inscritti nel cerchio e nel quadrato delle profile picture. I visi sorridenti con un braccio sulla spalla dell’amico/a opportunamente tagliato fuori, i paesaggi di mare e i tanti tramonti, le immagini del soggetto neonato o del di lui/lei figlio/a, gli innumerevoli cuccioli e animali vari, le citazioni, gli avatar, per non parlare dei simboli legati a manifestazioni di solidarietà, fede politica, calcistica eccetera. Da un’altra parte metterei invece i selfie, le immagini che celebrano l’attimo con i calici alzati, confermando il presente prima che scompaia nell’oblio del passato attraverso una continua storicizzazione dell’istante, mostrano turisti festaioli gesticolanti e occhieggianti come tanti emoticon, oppure collezioni di genuini appunti diaristici dai luoghi più disparati, persino il proprio bagno. Successivamente, organizzerei tutto questo materiale per elementi ricorrenti e originalità discordanti e cercherei con attenzione e curiosità quanto è replica di un modello assimilato, variazione, idea originale, trasgressione degli stereotipi, provocazione. Alla fine avrei compilato un atlante, inevitabilmente provvisorio, dove probabilmente sarei in grado di identificare i germi di nuove iconografie specifiche del medium, delle quali forse riuscirei anche a tracciarne l’evoluzione secondo variabili legate all’età degli autori, la loro estrazione culturale, la provenienza geografica... Sarebbe un lavoro divertente e intrigante che molto probabilmente qualcuno ha già fatto, ma che in ogni caso ignoro. Se non mi sono lanciato nell’impresa però è perché ho la sensazione che l’analisi approfondita di tutte queste immagini con perizia tassonomica mancherebbe quello che in fondo credo dovrebbe essere l’obiettivo ultimo della ricerca: la descrizione dell’idea di identità nell’epoca dei social media.

In un suo saggio sul ruolo sostanziale dell’abbigliamento in diverse culture pubblicato nel suo libro Stuff (2010), l’antropologo Daniel Miller sottolinea come le nostre indagini siano viziate da una certa “ontologia della profondità” , dalla convinzione cioè che la superficie nasconda sempre una verità da cercare nel nucleo più interno di un oggetto. Il fatto è che l’autoritratto di oggi, come il vestiario di cui si è occupato Miller, non può essere liquidato come questione superficiale, né rappresenta l’espressione di una realtà profonda, il segno, l’equivalente, il medium della sua rivelazione. Gli autoritratti, i selfie, le profile picture sono semplicemente l’identità del soggetto che senza sosta si autodefinisce per gli altri nell’artificio più o meno consapevole della costruzione della propria apparenza. E tutto questo funziona un po’ come le pellicole di una cipolla che alla fine sono la cipolla stessa: chi le separa e rimuove convinto di trovarne il nucleo originario rimarrà a mani vuote.

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